venerdì 3 febbraio 2012
La giustizia non è donna
Contrariamente a quanto si possa pensare, la sentenza della Corte di Cassazione non riguarda, a parer mio, la contrapposizione tra garantisti e giustizialisti, ma rileva dal punto di vista dell'egemonia del potere maschile, che alimentandosi delle gerarchie di genere impregna tanto la sfera privata che quella pubblica, le istituzioni, la cultura, il mondo lavorativo,la sessualità.
Infatti, la lettura della sentenza mi ha fatto subito venire in mente Michael Kaufman e le sue sette P della violenza di genere, in particolare, la numero 2 e la numero 3:
- Privilegi : la violenza è spesso il risultato di aver diritto a certi privilegi.
- Permesso : la violenza non solo è permessa, ma viene celebrata e ricompensata.
Ridurre come si sta facendo in queste ore, il dibattito tra garantisti e giustizialisti è un altro modo per distogliere l'attenzione sulla problematica vera della violenza di genere: l'assimetria di potere tra uomini e donne, che fonda l'organizzazione patriarcale delle società.
La violenza di genere come l'assenza dell'equità di genere, della giustizia sono alcune delle conseguenze di questa mascolinità egemonica.
Infatti, la lettura della sentenza mi ha fatto subito venire in mente Michael Kaufman e le sue sette P della violenza di genere, in particolare, la numero 2 e la numero 3:
- Privilegi : la violenza è spesso il risultato di aver diritto a certi privilegi.
- Permesso : la violenza non solo è permessa, ma viene celebrata e ricompensata.
Ridurre come si sta facendo in queste ore, il dibattito tra garantisti e giustizialisti è un altro modo per distogliere l'attenzione sulla problematica vera della violenza di genere: l'assimetria di potere tra uomini e donne, che fonda l'organizzazione patriarcale delle società.
La violenza di genere come l'assenza dell'equità di genere, della giustizia sono alcune delle conseguenze di questa mascolinità egemonica.
giovedì 2 febbraio 2012
Alla voce della memoria
Nulla è in regalo
Nulla è in regalo, tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo.
Sarò costretta a pagare per me
con me stessa,
a rendere la vita in cambio della vita.
È così che è stabilito,
il cuore va reso
e il fegato va reso
e ogni singolo dito.
È troppo tardi per impugnare il contratto.
Quanto devo
Mi sarà tolto con la pelle.
Me ne vado per il mondo
tra una folla di altri debitori.
Su alcuni grava l'obbligo
di pagare le ali.
Altri dovranno, per amore o per forza,
rendere conto delle foglie.
Nella colonna Dare
ogni tessuto che è in noi.
Non un ciglio, non un peduncolo
da conservare per sempre.
L'inventario è preciso,
e a quanto pare
ci toccherà restare con niente.
Non riesco a ricordare
dove, quando e perché
ho permesso che aprissero
questo conto a mio nome.
La protesta contro di esso
la chiamiamo anima.
E questa è l'unica voce
che manca nell'inventario.
(Wislawa Szymborska)
Nulla è in regalo, tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo.
Sarò costretta a pagare per me
con me stessa,
a rendere la vita in cambio della vita.
È così che è stabilito,
il cuore va reso
e il fegato va reso
e ogni singolo dito.
È troppo tardi per impugnare il contratto.
Quanto devo
Mi sarà tolto con la pelle.
Me ne vado per il mondo
tra una folla di altri debitori.
Su alcuni grava l'obbligo
di pagare le ali.
Altri dovranno, per amore o per forza,
rendere conto delle foglie.
Nella colonna Dare
ogni tessuto che è in noi.
Non un ciglio, non un peduncolo
da conservare per sempre.
L'inventario è preciso,
e a quanto pare
ci toccherà restare con niente.
Non riesco a ricordare
dove, quando e perché
ho permesso che aprissero
questo conto a mio nome.
La protesta contro di esso
la chiamiamo anima.
E questa è l'unica voce
che manca nell'inventario.
(Wislawa Szymborska)
mercoledì 1 febbraio 2012
Messico : Accusate e incarcerate per aver " ucciso i figli"
da Patricia Chandomí
Come esempio lampante di esclusione sociale, emarginazione e negazione dei loro diritti riproduttivi da parte del governo, tre donne indigene sono state incarcerate nello stato di Chiapas, accusate di omicidio, per aver sofferto parti o aborti in pessime condizioni.
Carmen, Juana e Rosario sono donne giovani, povere e analfabete.Non parlano lo spagnolo e hanno patito violenza da parte dei loro partner. Tutte e tre sono detenute nella prigione di Santo Cristobal della Casas per il reato di omicidio aggravato dal grado di parentela.
" Non sono state condannate per aborto, ma per omicido aggravato dal grado di parentela" spiega l'avvocata difensora Martha Figueroa.
" Noi (le donne) chiedevamo di aggravare il femminicidio per grado di parentela, perché non è la stessa cosa che ti uccida uno sconosciuto, invece che una persona che è stata il tuo compagno; tuttavia, per il reato di omicidio per grado di parentela, quando le processate sono donne,si applica con un solo testimone"
L'avvocata Figueroa cita il caso di Carmen, Juana e Rosario: le tre donne sono indigene Choles della zona nord del Chiapas " In realtà - denuncia Figueroa - queste donne hanno avuto brutti parti, tutte sono state segnalate come cattive madri, quando a fallire fu lo Stato che le ha mantenute in totale emarginazione ed esclusione".
Trattate come bestie.
Nel marzo 2012 Carmen compirà un anno che è nell'ala femminile del carcere numero 5 di San Cristobal della Casas. Essa è in attesa di giudizio.
" Non ho il coraggio di uccidermi" dichiara l'indigena a Cimacnoticias con l'aiuto di un traduttore. Dopo una lunga pausa non vuole più parlare. Le sue compagne di cella la giustificano " E' per i maltrattamenti subiti dal marito: le si avvicinò per picchiarla in testa con dei bastoni infuocati, l'ha colpita come se fosse un animale, come se non sentisse nulla".
La sua avvocata spiega " Carmen ha subito molta violenza, che le ha provocato una diminuzione cerebrale".
La donna è madre di cinque figli. Il marito - José - l'ha torturata per anni, minacciandola di morte. Carmen l'ha denunciato in ripetute occasioni, però tornava sempre libero,come se non fosse successo nulla".
Durante la sesta gravidanza, l'indigena si è separata dal compagno, iniziando una relazione con il cognato. José le disse che quel figlio non era suo e la minacciò di ucciderla assieme al nascituro. " Ho vissuto la gravidanza con tanta paura, paura che ci uccidesse" dichiara Carmen.
" Come ogni mattina mi sono recata nei campi;non sapevo che lì avrei partorito...avevo tanta paura che arrivasse lui e ci uccidesse,ho posato il neonato e mi sono messa a gridare perché ci aiutassero, ma non è venuto nessuno, mi sono trascinata per il campo con molto dolore e paura... nessuno mi ha aiutata, quando sono ritornata a cercare mio figlio non c'era più, poi è arrivata la polizia che mi ha trascinata in carcere per omicidio"
Carmen, Juana e Rosario sono donne giovani, povere e analfabete.Non parlano lo spagnolo e hanno patito violenza da parte dei loro partner. Tutte e tre sono detenute nella prigione di Santo Cristobal della Casas per il reato di omicidio aggravato dal grado di parentela.
" Non sono state condannate per aborto, ma per omicido aggravato dal grado di parentela" spiega l'avvocata difensora Martha Figueroa.
" Noi (le donne) chiedevamo di aggravare il femminicidio per grado di parentela, perché non è la stessa cosa che ti uccida uno sconosciuto, invece che una persona che è stata il tuo compagno; tuttavia, per il reato di omicidio per grado di parentela, quando le processate sono donne,si applica con un solo testimone"
L'avvocata Figueroa cita il caso di Carmen, Juana e Rosario: le tre donne sono indigene Choles della zona nord del Chiapas " In realtà - denuncia Figueroa - queste donne hanno avuto brutti parti, tutte sono state segnalate come cattive madri, quando a fallire fu lo Stato che le ha mantenute in totale emarginazione ed esclusione".
Trattate come bestie.
Nel marzo 2012 Carmen compirà un anno che è nell'ala femminile del carcere numero 5 di San Cristobal della Casas. Essa è in attesa di giudizio.
" Non ho il coraggio di uccidermi" dichiara l'indigena a Cimacnoticias con l'aiuto di un traduttore. Dopo una lunga pausa non vuole più parlare. Le sue compagne di cella la giustificano " E' per i maltrattamenti subiti dal marito: le si avvicinò per picchiarla in testa con dei bastoni infuocati, l'ha colpita come se fosse un animale, come se non sentisse nulla".
La sua avvocata spiega " Carmen ha subito molta violenza, che le ha provocato una diminuzione cerebrale".
La donna è madre di cinque figli. Il marito - José - l'ha torturata per anni, minacciandola di morte. Carmen l'ha denunciato in ripetute occasioni, però tornava sempre libero,come se non fosse successo nulla".
Durante la sesta gravidanza, l'indigena si è separata dal compagno, iniziando una relazione con il cognato. José le disse che quel figlio non era suo e la minacciò di ucciderla assieme al nascituro. " Ho vissuto la gravidanza con tanta paura, paura che ci uccidesse" dichiara Carmen.
" Come ogni mattina mi sono recata nei campi;non sapevo che lì avrei partorito...avevo tanta paura che arrivasse lui e ci uccidesse,ho posato il neonato e mi sono messa a gridare perché ci aiutassero, ma non è venuto nessuno, mi sono trascinata per il campo con molto dolore e paura... nessuno mi ha aiutata, quando sono ritornata a cercare mio figlio non c'era più, poi è arrivata la polizia che mi ha trascinata in carcere per omicidio"
Niente da mangiare
Juana e suo marito, Caralampio, sono detenuti da 10 mesi. I due sono stati accusati di tentato omicidio aggravato dal grado di parentela.
" Siamo molto poveri - racconta nell'intervista Juana - ci sono state volte che davo ai miei sei figli solo una frittata al giorno. Mi dicevo, i miei figli stanno morendo di fame, questa era la mia preoccupazione di tutti i giorni, piangevamo della nostra povertà, tutti lavoravamo nel campo e non bastava". il parto avvenne in montagna: " Nessun dottore mi ha mai visitata, non riuscivo a riposare, dovevo lavorare tutti i giorni. Il bambino è arrivato mentre lavoravo; è nato lassù in montagna; lo lasciai adagiato sotto alcune piante per correre ad avvisare mio marito; quando siamo ritornati non c'era più,pensai che era caduto nel burrone. Al ritorno a casa ci stava aspettando la polizia che ci ha accusati di aver tentato di ucciderlo".
E continua: Così ho saputo che mio figlio era vivo;ce l'hanno tolto. Il Distretto federale l'ha dato in adozione... Mi sento così impotente, mi preoccupo dei miei figli, se mangiano, ora che i loro genitori sono in carcere"...
Nove anni in carcere.
Rosaria è originaria della comunità di Palenque. Singola, ha lavorato incinta di otto mesi, come cameriera. Nel bar dove lavorava per ordine del suo padrone, doveva accompagnare il cliente a bere.
" Era l'unico posto dove mi accettarono incinta di otto mesi - racconta - questo lavoro mi permetteva di pagarmi la stanza. Quel giorno ho evitato di bere perché mi sentivo un pò stordita. Vivevo in un piccolo solaio che si raggiungeva attraverso una scala di legno. Stavo salendo, quando sono caduta e ho perso il bambino. Appena mi sono ripresa mi hanno detto che dovevo andare in carcere perché avevo ucciso mio figlio".
Rosaria è stata condannata a 15 anni di prigione per "omicidio aggravato per grado di parentela". Sono nove anni che è in carcere.
In tutto questo tempo ha imparato lo spagnolo ed ora può raccontare la sua storia senza l'aiuto di un traduttore. Rosaria è rimasta incinta un paio di volte in prigione, ma nessuna delle gravidanze è arrivata al termine per la sua salute cagionevole. Rosaria si tormenta per i suoi due figli che ha lasciato al momento di andare in carcere.
L'avvocata Martha Figueroa commenta " Le autorità hanno giudicato Rosaria per il contesto. Siccome era sola, povera e cameriera, un figlio l'avrebbe disturbata. E' assurdo arrivare all'ottavo mese di gravidanza per poi lasciarti cadere da una scala a rischio della tua stessa vita".
Senza diritti
La difensora rileva che nei tre casi di queste donne detenute sia chiara la misoginia e la punizione fisica e sociale delle più povere e storicamente emarginate. Per questo l'avvocata chiede l'immediata liberazione.
E' da notare che con questi arresti lo Stato messicano viola la Convenzione per la Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro la Donna, in riferimento a chi ha l'obbligo di garantire l'accesso ai servizi sanitari e di pianificazione familiare per le donne.
In più fallisce nella concessione di servizi appropriati per la gravidanza, parto e purperio in modo gratuito - quando sia necessario - così come nell'adeguata alimentazione per le donne durante la gravidanza e l'allattamento.
Cimacnoticias.com.
(traduzione di Lia Di Peri)
foto da aliciaguevaraenelmundo.blogspot.com/ |
lunedì 30 gennaio 2012
Medea, un mito patriarcale
" La Sindrome di Medea" è l'ultima trovata, in ordine di tempo, del sessismo.
Cerchiamo allora di ri-percorrere la storia di Medea attraverso lo sguardo di una scrittrice da poco scomparsa, Christa Wolf, che ricostruisce la vicenda svelando i risvolti patriarcali e gli stereotipi di genere tramandati nei secoli.
Medea
di Christa Wolf
(Postafazione di Anna Chiarloni)
Medea non è una fattucchiera. E tanto meno un'infanticida. Questo, in
sintesi, il senso del romanzo di Christa Wolf. Un'interpretazione del
tutto contro corrente in quanto da Euripide a Heiner Muller il mito di
Medea rappresenta l'esito di un tragico scontro tra il mondo arcaico e
instintuale della Colchide e quello civile e raziocinante dei Greci.
Questo perché la storia ci è nota come ci è stata tramandata dal
drammaturgo ateniese. Un intreccio di amore, gelosia e tradimento:
ingannando il padre e il fratello, Medea aiuta Giasone e gli Argonauti a
riconquistare il vello d'oro e fugge con lui a Corinto. Qui,
abbandonata dal marito che medita di sposare Glauce per ottenere il
trono di Creonte, Medea incendia la città, provoca la morte della rivale
e uccide i figlioletti avuti da Giasone.
Ci sono state, è vero
altre interpretazioni. Rispetto al testo di Euripide, teso ad affermare
la superiorità della ratio greca sul tenebroso mondo dei barbari, il
mito è stato riletto, soprattutto a partire dal romanticismo, in
funzione di un crescente interesse per la sfera del sentimento,
accompagnato - è il caso di Grillparzer (1821) - da un certo scetticismo
nei confronti della techne ellenica, sentita come espressione di una
cinica volontà di dominio. Anche nel film di Pasolini (Medea, 1969) il
furto del vello d'oro diventa simbolol della moderna rapina nei
confronti di un mondo primigenio e inerme : Giasone è la "mens
momentanea", il tecnico dell'oggi circoscritto nell'opaca prassi
razionale. Medea rappresenta invece il tumulto del cuore emergente da un
mondo integro, che ancora conosce la dimensione metafisica.Malgrado le diverse
impostazioni, la lettura del mito corre fin qui nell'alveo prestabilito
da Euripide che sfocia nell'infanticidio. Indubbiamente, al di là del
doppio tradimento - prima di Medea verso le sue genti, poi di Giasone
verso una moglie che gli intralcia la carriera - il dato sconcertante
resta quell'atroce violenza perpetrata dalla barbara della Colchide
sulla propria prole. Ora è proprio questo che Christa Wolf mette in
discussione.
Ripercorrendo a ritroso i variegati sentieri del
mito fino alle fonti precedenti alla versione euripidea, la scrittrice
rintraccia una figura diversa : una donna travagliata sì dall'amore, ma
ancor più dall'incapacità degli abitanti di Corinto di integrare una
cultura come quella della Colchide, per sua natura non incline alla
violenza. Non un'infanticida, dunque,al contrario una donna forte e
generosa, depositaria di ub remoto sapere del corpo e della terra, che
una società intollerante emargina e annienta negli affetti fino a
lapidarle i figli.
La Wolf rielabora frammenti di un mito
provenienti da fonti diverse, attestate soprattutto da Apollonio Rodio.
Infatti, che Euripide avesse manipolato la vicenda per assolvere gli
abitanti di Corinto - colpevoli di aver massacrato i figli di Medea -
emerge anche dalla storiografia antica, onorario compreso : quindici
talenti d'argento, ricorda Robert Graves, sarebbero stati versati al
drammaturgo per questa storia di disinvolta cosmesi di stato, utile per
presentare al meglio Corinto sulla scena del teatro greco durante le
feste di Dionisio.
(...) Avvezza a lasciar sbirciare il
pubblico nella sua officina letteraria - si pensi alle Premesse di
Cassandra (1983) - l'autrice ha chiarito il percorso della sua ricerca,
maturata durante un lungo soggiorno negli Stati Uniti. Movendo
dall'etimo positivo del nome - Medea, ossia "colei che porta consiglio"
un etimo aderente alle raffigurazioni più antiche che vogliono la donna
della Colchide dea, e successivamente guaritrice - la Wolf ha indagato i
motivi dello scadere di questa figura a emblema di una passione
selvaggia e disumana.
"Nel corso dei millenni la figura di
Medea è stata ribaltata nel suo opposto da un bisogno patriarcale di
denigrare lo specifico femminile. Ma qualcosa non mi tornava : Medea non
poteva essere un'infanticida perché una donna proveniente da una
cultura matriarcale non avrebbe mai ucciso i suoi figli. In seguito
rintracciai - con la collaborazione di altre studiose- le fonti
antecedenti a Euripide che confermavano il mio assunto di fondo. Fu un
momento straordinario".
Medea non rappresenta l'oscuro
inabissamento nell'irrazionale, al contrario essa rivendica l'archetipo
della chiarezza, lo scandalo della ragione. Donna di semenza vigile e
ostinata, la barbara della Colchide non si lascia irretire dai precetti
di Acamante, l'astronomo di corte che la vorrebbe ligia e devota a una
liturgia del potere destinata a celare i crimini del palazzo. Medea nega
la separazione tra Amt e Person - tra pubblico e privato - e non
riconosce altra autorità se non quella del proprio intuito. E' questo
suo "secondo sguardo" che la spinge a seguire Merope - regina muta e
sepolcrale - fin nelle viscere della casa reale carpendone il segreto
murato nel sottosuolo: nel timore di perdere il trono il re Creonte le
ha ucciso la figlia primogenita, Ifinoe. Quel regno che si pretende
vessillo di gesta gloriose è dunque fondato su di un crimine.
E' proprio
questa scoperta a travolgere Medea: Corinto reagisce prima con la
diffamazione, poi, devastata dalla peste, identifica in lei, nella donna
diversa, irriducibile alla norma dei potenti, il capro espiatorio.
Aizzata dalla corte sarà la folla a lapidarne i figli.
E sarà Corinto o
meglio la ragion di stato - complice Euripide - a consegnare ai posteri
l'immagine di una Medea sfregiata dall'accusa di infanticidio,
istituendo con ipocrita cura un rito di riparazione per un delitto da
lei non commesso.
Crista Wolf, Meda- ediz. e/o, 1996
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