sabato 8 luglio 2017

Aste di schiavi alle porte dell’Europa.

Offerte, frustate e catene. EL PAÍS mostra il volto alle denunce delle Nazioni Unite: sempre più immigrati vengono venduti come schiavi nei mercati della Libia.

di NACHO CARRETERO







Nella città di Sabha- situata a sud della Libia, 100.000 abitanti – c’è un luogo conosciuto come il ghetto di Alì. E’ un nome che fa abbassare la testa ad Abou Bacar Yaw, un giovane gambiano di 18 anni, che vi ha trascorso due mesi.
Il ghetto di Alì è probabilmente e, in base alle descrizioni di coloro che vi sono stati, un ex centro di detenzione. Prima della guerra che si è conclusa con la caduta di Muammar  Gheddafi, era una oasi migratoria del percorso dell’Africa centrale verso l’Europa. Molti sub-sahariani erano trattenuti in questo posto espulsi dal paese. Sabha è stata anche una destinazione turistica molto attraente per gli avventurieri.
Abou Bacar racconta che, oggi, è un edificio fatiscente, pieno di ratti e di polvere, con diverse celle e un cortile interno. Centinaia di giovani africani sub sahariani sono stipati in piccoli spazi senza luce né ventilazione. Il posto è diretto da un libico di etnia tubo conosciuto come Ali. Le strade di Sabha sono oggi il territorio delle milizie, trafficanti, mafiosi e vicini di casa armati. Zona proibita per i visitatori.
Abou Bacar è arrivato in questo luogo dopo cinque giorni di viaggio ininterrotto attraverso il deserto. Era partito da Agadez, nel centro del deserto del Niger, dove sarebbe ritornato mesi dopo. Seduto su una vecchia sedia con una cicatrice accanto al suo occhio sinistro e la chiamata alla preghiera dalla moschea vicina, racconta i suoi ricordi. Afferma che tutti a Sabha conoscono il ghetto di Alì. “ Non importa, però a nessuno perché la Libia è l'inferno. Ognuno è armato. Anche i bambini portano la pistola. E a nessuno interessa il bene o il male”. Il ghetto di Alì svolge le sue attività senza troppi disagi.

"Avevo già pagato il mio biglietto per Tripoli. L’ho pagato ad Agadez, prima di partire". Abou ha sborsato 381 euro, i risparmi di tutta la sua famiglia. “ Ma non sono mai arrivato a Tripoli”. Quando hanno raggiunto Sabha, il conducente del veicolo che lo portò attraverso il Sahara, lo condusse al ghetto.
“ Là c’erano alcuni libici in uniforme militare e armati. Non so se fossero soldati o miliziani.” Abou fu portato in un edificio, gli dissero che non aveva pagato il biglietto e lo chiusero senza spiegazioni.
Un bicchiere d'acqua e una pagnotta di pane era quello che riceveva ogni giorno e per due mesi, in quel ghetto. In questo modo, l’edificio si era riempito, secondo le stime Abou, di circa 300 persone tutti uomini. Quelli che morivano li tiravano fuori e bruciavano i loro corpi in un terreno abbandonato vicino al centro. “ Ogni giorno arrivavano uomini arabi a volte con guardie del corpo e, allora, ci portavano in cortile. Lì dovevamo sederci così - Abou si siede sul pavimento con le gambe aperte - in fila, ognuno tra le gambe di chi aveva dietro. Formavamo un treno sul terreno".  Abou torna alla sua sedia e continua il racconto "L'uomo arabo camminava in mezzo a noi e ne sceglieva alcuni. Sceglieva i più forti, quelli che non sembravano che stessero per morire nei due giorni successivi. Li sceglieva come si scelgono i manghi al mercato della frutta. Dopo aver pagato le persone del ghetto, se li portava via. Ogni giorno arrivavano uomini arabi a comprarci”.
Abou è stato venduto dopo due mesi. "Non so quanto hanno pagato per me. Di fronte a noi non parlavano di soldi, negoziavano il prezzo in un angolo”. Abou tace. Ha lo sguardo perduto. Poi dice: "Il ghetto Ali è il posto che immagini quando ti parlano di un mercato di schiavi”. Un mercato degli schiavi nel XXI secolo in una città fino a poco tempo relativamente turistica e in un paese a 400 chilometri dall'Europa.



Il buco libico

Prima della guerra, esplosa sotto la primavera araba del 2011- la Libia era una delle numerose rotte migratorie verso l’Europa. Le mafie la sceglievano per il trasferimento dei migranti in Mauritania e poi in canoa per raggiungere le isole Canarie; oppure attraverso l'Algeria per raggiungere il Marocco e la recinzione di Melilla o attraversare la Libia tentando di navigare in piccole imbarcazioni per l'isola italiana di Lampedusa.
Oggi, la Libia si profila quasi come l’unica rotta: il caos è così tanto nel paese che le mafie e i trafficanti di persone spadroneggiano senza difficoltà a differenza delle sorvegliate frontiere degli altri paesi.
Ogni popolazione e città in Libia appartiene a una milizia diversa. E in questo guazzabuglio cercano di sgattaiolare i migranti per attraversare il mare. Si stima che, oggi, circa 330.000 migranti sono bloccati in Libia, secondo l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).
Il problema è che questa violenta anarchia ha il suo contrario: migliaia di uomini e donne vengono rapiti, approfittando della mancanza di controllo. I sequestri da alcuni mesi hanno fatto un ulteriore passo: sempre più schiavi.
Lo scorso aprile l'OIM, l’agenzia delle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto che denunciava che in Libia ci sono, da mesi, mercanti di schiavi. Luoghi in cui i migranti sono venduti per utilizzarli come manodopera, come servi o schiavi sessuali.
Giuseppe Loprete, capo missione OIM in Niger, spiega nel comunicato del suo ufficio a Niamey che "i migranti di ritorno dalla Libia ci raccontano storie terribili. Ci parlano di offerte, di aste, di compravendita di schiavi”. Una macabra retrocessione nel tempo attraverso il Mediterraneo. Il ghetto di Alì, dove fu venduto Abou, è uno di questi mercati.
Non si tratta di rapimenti in cui è stato richiesto un riscatto. Non è sfruttamento. Non si tratta di essere in grado di pagare per la tua libertà. Si tratta di un commercio di schiavi in cui vicini della Libia comprano sub sahariani, perché lavorino nelle loro case, aziende agricole o coltivazioni senza paga di alcun tipo – di là di un tetto o cibo – e sotto un regime di violenza.
IOM l’ha denunciato e, ora, cominciano ad apparire anche le testimonianze di quelli che sono scappati da questa esperienza. La comunità internazionale, tuttavia, non sembrano fare troppo in questa direzione per porre fine con un incubo di altri secoli.

Venduto per 3.200 euro

"Voglio spiegare al mondo cosa sta succedendo."  Lo dice Achaman Agahli, 39 anni, robusto, residente nella città nigeriana di Agadez. Ci riceve in casa sua, una costruzione di base in cui condividono lo spazio persone e capre.
Achaman lavorava trasportando container tra città del deserto. E 'stato un amico che gli ha fatto considerare la possibilità di cercare di raggiungere l'Europa per fare soldi. Si consultò con la moglie e decise di tentare. E’ partito una notte di giugno dell’anno scorso, alle tre del mattino, arrampicato sul retro di una Toyota bianca. Quando stavano per partire, ha sentito il trafficante che aveva pagato, dire al telefono "Ti mando un lotto di 25".   Achaman non diede molta importanza in quel  momento. Dieci giorni dopo avrebbe capito il senso di quell'affermazione.
"L'idea era che ci portassero fino a Madama, al confine tra Niger e Libia, abbiamo fatto, però un giro più largo e ci hanno lasciati ad Al Qatrun, e in Libia. Qui, ci hanno raccolti alcuni libici tubu [membri di un gruppo etnico locale]. Portavano la barba ed erano armati. È stato allora che mi sono detto “ C’è qualche problema, c’è qualcosa di sbagliato. Ci hanno portati a Sabha e ci hanno messo tutti nella stanza di un edificio vuoto ".
Achaman ha trascorso 26 giorni chiuso. “ Ci davano pane e latte. Un giorno, uno degli uomini che ci faceva la guardia ci ha detto “ Non vi diamo di più, perché così non avete la forza di scappare”. Il ventisettesimo giorno arrivò un uomo libico e iniziò a discutere di denaro con il capo dei sequestratori di Achaman. Quella volta sì, udirono la negoziazione. "Io parlo l'arabo. Ho capito ciò che dicevano. Hanno convenuto la vendita di un lotto di 12. Ha detto proprio così un lotto di 12. E ogni partita, per ciascuno di noi, avrebbe pagato 5.000 dinari libici". Quel giorno, Achaman fu comprato per 3.200 euro.
"Il nostro compratore ci portò a casa sua, una grande casa con un vasto giardino in Ubari, a pochi chilometri da Sabha. Era un uomo ricco. Ho trascorso due mesi recuperando perché ero molto malato. Quando sono stato bene, ho iniziato a lavorare. " Achaman doveva nutrire gli animali del proprietario, pulire le stalle, curare l’orto, arare… In cambio, il padrone gli dava un riparo e da mangiare. Poiché parlava arabo diventò il suo confidente. “ Agli altri li disprezzava, però a me trattava bene. Non mi picchiava né mi urlava.  E dopo pochi mesi, era libero di entrare e uscire da casa se era necessario fare delle commissioni ".
E accadde in una di queste commissioni. Achaman disse che doveva andare a Sabha per delle medicine e sulla strada, incontrò un autista nigeriano che lo aiutò a passare il confine.
La moglie di Achaman è morta la scorsa settimana di parto. “ Se n’è andata senza sapere nulla di ciò che mi era accaduto. Non le ho mai detto nulla. Non volevo vederla triste”.


Cinture come frusta.

Adam Souleyman indossa una camicia gialla con un disegno di Don Chisciotte. Ha 24 anni è molto magro e indossa un turbante in testa per proteggersi dal sole e dalla sabbia. Anche se vive ad Agadez, dove ci riceve nel cortile di una casa famigliare, è nato e cresciuto in un villaggio vicino a Zinder, seconda città del Niger, a sud del paese. Da lì, è partito per la Libia verso l’Europa.  L’accoglienza ebbe luogo a Madama, città di confine, dove, ricorda Adam, alcuni miliziani lo gettarono sul pavimento insieme con altri migranti con cui viaggiava. "Hanno preso i nostri documenti e soldi". Da allora, Adam, divenne una merce.
Fu rinchiuso per tre giorni, fino a quando non arrivò un uomo, che Adam ricorda come “ grande e grosso”, discusse il prezzo con i miliziani e prese tre di loro. “ Un ragazzo di Mali, un altro del Burkina Faso e me”. Tutti su un furgoncino. L’uomo ci ha chiusi in un seminterrato. Le finestre erano molto piccole e si affacciava sul terreno sabbioso. C'erano dei tappetini, dove dormivamo. L’uomo ci ha solo detto una cosa “ Sopravvivere è il meglio che potete ottenere da adesso”.
Era il nuovo padrone di Adam e degli altri due ragazzi. E li affittava. "Ogni giorno abbiamo dovuto lavorare in una casa diversa, di ricchi arabi, case molto grandi. Ci svegliava gettandoci acqua fredda e ci tirava dal seminterrato colpendoci con la cintura come se fosse una frusta " Adam riproduce a malincuore il gesto, alzando il braccio. "Quando terminavamo il lavoro, veniva a prenderci e ci rinchiudeva nel sotterraneo. Così ha vissuto Adam per un mese e dieci giorni.
"Ci sono stati giorni in cui non lavoravamo, perché l’uomo non veniva a cercarci. E passavamo la giornata chiusi senza mangiare. Il ragazzo del Mali parlava di farla finita con tutto questo, di suicidarsi, diceva che non ne poteva più. “ E tu?” “ Io no, volevo rivedere la mia famiglia” “ Ti sentivi come uno schiavo?” “ Non mi sentivo, ero uno schiavo”.
Adam passava le notti maledicendo il giorno in cui aveva preso la decisione di andare in Libia. La luce l’ho vista un pomeriggio, quando il padrone di casa lo mandò a una pozza d’acqua per riparare un guasto. "Stavo camminando e  mi sono imbattuto in un camion di lavoratori africani. Uno di loro era hausa come me, così gli urlai e gli chiesi aiuto”. Quell’uomo accolse Adam in casa sua e, poi, trovò un posto su di un camion, per farlo ritornare ad Agadez, dove ora lavora per raccogliere soldi e tornare a Zinder. "Non so cosa sia successo agli altri due ragazzi, del Mali e del Burkina Faso ", dice Adam. "Forse sono ancora lì." Quindi, stringere le mani contro i suoi occhi e piange.





Sette mesi senza vedere il cielo.
Marian copre la testa con un velo rosso. Ha lasciato Lagos, in Nigeria, nel luglio dello scorso anno. Le dissero che dopo un breve tragitto in auto e attraversato un fiume, sarebbe arrivata in Italia. Marian ha 23 anni e vive sul pavimento della stazione degli autobus di Agadez, dove attende di poter ritornare nella sua città. Lì nessuno sa che Mariam è diventata o per sette mesi in una schiava sessuale.

Fu a Tripoli, dopo aver attraversato il deserto con giorni in più del previsto, dopo un errore di orientamento del conducente e dopo aver bevuto dalle pozzanghere che incontravano. "Quando siamo arrivati ​​a Tripoli ci hanno messo in un seminterrato senza finestre. Ho chiesto quando saremmo arrivati in Italia e un uomo mi disse “ Mai”. Per Marian iniziò il calvario.

“ Una donna spiegò la situazione al gruppo di ragazze che eravamo nel sotterraneo. Ci disse che se volevamo tornare a essere libere, dovevamo pagare una quantità (Marian non vuole dire quanto) e che l'unico modo per raggiungere quella cifra era prostituirsi in questo seminterrato”.
Marian ansima: “ Io non smettevo di piangere. E ho rifiutato. E’ arrivato un uomo il primo giorno e mi disse “ Siediti qui”, indicando le gambe ed io gli dissi di no. Allora, il marito della donna che ci aveva spiegato tutto, mi colpì sul volto. Marian gira la guancia come a offrirla. Poi aggiunge: "Ma c'è un momento in cui non vuoi che ti picchino più”.
Se Marian o qualche altra si rifiutava, la donna strappava il foglio in cui era annotato il debito. “ E dovevamo ricominciare da capo”. Ci sono voluti sette mesi per riconquistare la sua libertà. Durante quei sette mesi non ha mai lasciato il seminterrato. Non ha mai avuto modo di vedere il cielo.
"Ora voglio tornare a Lagos. E riprendere la mia vita di prima. Spero che nessuno nella mia famiglia sappia mai ciò che mi è accaduto”.








Legati per i polsi.

Quando spiega la sua tragica esperienza, Nasser Abdul Kader, sorride. Come meccanismo di difesa, come una valvola di sfogo per non crollare. Nasser non fu comprato da nessuno. L’uomo che l’ha schiavizzato lo avevo rapito. Come quasi tutti gli altri, arrivò in Libia con la promessa di raggiungere l’Italia in quattro giorni. Aveva lasciato Agadez, dove era nato e dopo il viaggio, è stato abbandonato per le strade di Sabha, senza soldi né documenti, insieme con altri sei immigrati. "Siamo andati in una piazza in cui venivano uomini a raccogliere i lavoratori per i singole giornate. Ogni volta che arrivava qualcuno, i ragazzi, si avventavano su loro perché li portassero con sé”.
Il terzo giorno, Nasser e un altro ragazzo andarono con un tizio che aveva bisogno di manodopera. “ Ci portò a un allevamento di animali da cortile pieno di galline. Ci mostrò la fattoria e ci disse che il nostro lavoro era di dar da mangiare alle galline e tenerle sveglie durante la notte”.  Nasser fece una smorfia d’incomprensione e spallucce. "Il giorno dopo ci presentò a due uomini armati e molto forti e ci disse che erano i responsabili della sicurezza della fattoria”.
Nasser ha trascorso un mese e mezzo scaricando sacchi di mangimi, alimentando le galline e tenendole sveglie la notte. Tutto cambiò quando Nasser chiese a uno degli uomini della sicurezza quando sarebbero stati pagati. “ Mi guardò, alzò il dito così -Nasser mette il dito indice retto in gesto di minaccia – e mi disse: “ Stai attento, in questo posto non si pagano salari”. Mi spaventai ma il giorno dopo, arrabbiati, ci rifiutammo di scaricare il camion”.
La protesta di Nasser e del suo amico ebbe conseguenze, quando le due guardie videro che i sacchi di mangime non erano stati scaricati. Ci vennero a cercare all’abitazione e ci hanno colpiti con uno spesso filo e anche con una cintura. Dopo, ci hanno mostrato una pistola e di dissero” Se non lavorate, vi uccidiamo e prenderemo altri due negri”.
Da quel giorno, i due ragazzi dovettero lavorare legati l’uno all’altro. "Con una catena di circa due metri, fortemente legata ai polsi. E ci picchiavano con un cavo mentre lavoravamo. Sono diventato uno schiavo”.
Nasser e il suo compagno venivano liberati soltanto quando tornavano in stanza per dormire. "Nessuno sapeva, dove eravamo, non avevamo soldi, senza documenti, senza contatti con l'esterno. E 'stato come essere morto ". La tragedia è durato cinque mesi, fino a quando Nasser è riuscito a fuggire dalla fattoria una mattina in cui due uomini della sicurezza dormivano perché ubriachi.
“ Ai ragazzi che vogliono andare in Europa, dico, non lo fate. Non andate. Vai a morire o a essere schiavo. E gli racconto la mia storia”.  E ti ascoltano? “ No, nessuno. Rispondono sempre la stessa cosa: non ho scelta”.



(traduzione di Lia Di Peri)