sabato 8 luglio 2017

Aste di schiavi alle porte dell’Europa.

Offerte, frustate e catene. EL PAÍS mostra il volto alle denunce delle Nazioni Unite: sempre più immigrati vengono venduti come schiavi nei mercati della Libia.

di NACHO CARRETERO







Nella città di Sabha- situata a sud della Libia, 100.000 abitanti – c’è un luogo conosciuto come il ghetto di Alì. E’ un nome che fa abbassare la testa ad Abou Bacar Yaw, un giovane gambiano di 18 anni, che vi ha trascorso due mesi.
Il ghetto di Alì è probabilmente e, in base alle descrizioni di coloro che vi sono stati, un ex centro di detenzione. Prima della guerra che si è conclusa con la caduta di Muammar  Gheddafi, era una oasi migratoria del percorso dell’Africa centrale verso l’Europa. Molti sub-sahariani erano trattenuti in questo posto espulsi dal paese. Sabha è stata anche una destinazione turistica molto attraente per gli avventurieri.
Abou Bacar racconta che, oggi, è un edificio fatiscente, pieno di ratti e di polvere, con diverse celle e un cortile interno. Centinaia di giovani africani sub sahariani sono stipati in piccoli spazi senza luce né ventilazione. Il posto è diretto da un libico di etnia tubo conosciuto come Ali. Le strade di Sabha sono oggi il territorio delle milizie, trafficanti, mafiosi e vicini di casa armati. Zona proibita per i visitatori.
Abou Bacar è arrivato in questo luogo dopo cinque giorni di viaggio ininterrotto attraverso il deserto. Era partito da Agadez, nel centro del deserto del Niger, dove sarebbe ritornato mesi dopo. Seduto su una vecchia sedia con una cicatrice accanto al suo occhio sinistro e la chiamata alla preghiera dalla moschea vicina, racconta i suoi ricordi. Afferma che tutti a Sabha conoscono il ghetto di Alì. “ Non importa, però a nessuno perché la Libia è l'inferno. Ognuno è armato. Anche i bambini portano la pistola. E a nessuno interessa il bene o il male”. Il ghetto di Alì svolge le sue attività senza troppi disagi.

"Avevo già pagato il mio biglietto per Tripoli. L’ho pagato ad Agadez, prima di partire". Abou ha sborsato 381 euro, i risparmi di tutta la sua famiglia. “ Ma non sono mai arrivato a Tripoli”. Quando hanno raggiunto Sabha, il conducente del veicolo che lo portò attraverso il Sahara, lo condusse al ghetto.
“ Là c’erano alcuni libici in uniforme militare e armati. Non so se fossero soldati o miliziani.” Abou fu portato in un edificio, gli dissero che non aveva pagato il biglietto e lo chiusero senza spiegazioni.
Un bicchiere d'acqua e una pagnotta di pane era quello che riceveva ogni giorno e per due mesi, in quel ghetto. In questo modo, l’edificio si era riempito, secondo le stime Abou, di circa 300 persone tutti uomini. Quelli che morivano li tiravano fuori e bruciavano i loro corpi in un terreno abbandonato vicino al centro. “ Ogni giorno arrivavano uomini arabi a volte con guardie del corpo e, allora, ci portavano in cortile. Lì dovevamo sederci così - Abou si siede sul pavimento con le gambe aperte - in fila, ognuno tra le gambe di chi aveva dietro. Formavamo un treno sul terreno".  Abou torna alla sua sedia e continua il racconto "L'uomo arabo camminava in mezzo a noi e ne sceglieva alcuni. Sceglieva i più forti, quelli che non sembravano che stessero per morire nei due giorni successivi. Li sceglieva come si scelgono i manghi al mercato della frutta. Dopo aver pagato le persone del ghetto, se li portava via. Ogni giorno arrivavano uomini arabi a comprarci”.
Abou è stato venduto dopo due mesi. "Non so quanto hanno pagato per me. Di fronte a noi non parlavano di soldi, negoziavano il prezzo in un angolo”. Abou tace. Ha lo sguardo perduto. Poi dice: "Il ghetto Ali è il posto che immagini quando ti parlano di un mercato di schiavi”. Un mercato degli schiavi nel XXI secolo in una città fino a poco tempo relativamente turistica e in un paese a 400 chilometri dall'Europa.



Il buco libico

Prima della guerra, esplosa sotto la primavera araba del 2011- la Libia era una delle numerose rotte migratorie verso l’Europa. Le mafie la sceglievano per il trasferimento dei migranti in Mauritania e poi in canoa per raggiungere le isole Canarie; oppure attraverso l'Algeria per raggiungere il Marocco e la recinzione di Melilla o attraversare la Libia tentando di navigare in piccole imbarcazioni per l'isola italiana di Lampedusa.
Oggi, la Libia si profila quasi come l’unica rotta: il caos è così tanto nel paese che le mafie e i trafficanti di persone spadroneggiano senza difficoltà a differenza delle sorvegliate frontiere degli altri paesi.
Ogni popolazione e città in Libia appartiene a una milizia diversa. E in questo guazzabuglio cercano di sgattaiolare i migranti per attraversare il mare. Si stima che, oggi, circa 330.000 migranti sono bloccati in Libia, secondo l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).
Il problema è che questa violenta anarchia ha il suo contrario: migliaia di uomini e donne vengono rapiti, approfittando della mancanza di controllo. I sequestri da alcuni mesi hanno fatto un ulteriore passo: sempre più schiavi.
Lo scorso aprile l'OIM, l’agenzia delle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto che denunciava che in Libia ci sono, da mesi, mercanti di schiavi. Luoghi in cui i migranti sono venduti per utilizzarli come manodopera, come servi o schiavi sessuali.
Giuseppe Loprete, capo missione OIM in Niger, spiega nel comunicato del suo ufficio a Niamey che "i migranti di ritorno dalla Libia ci raccontano storie terribili. Ci parlano di offerte, di aste, di compravendita di schiavi”. Una macabra retrocessione nel tempo attraverso il Mediterraneo. Il ghetto di Alì, dove fu venduto Abou, è uno di questi mercati.
Non si tratta di rapimenti in cui è stato richiesto un riscatto. Non è sfruttamento. Non si tratta di essere in grado di pagare per la tua libertà. Si tratta di un commercio di schiavi in cui vicini della Libia comprano sub sahariani, perché lavorino nelle loro case, aziende agricole o coltivazioni senza paga di alcun tipo – di là di un tetto o cibo – e sotto un regime di violenza.
IOM l’ha denunciato e, ora, cominciano ad apparire anche le testimonianze di quelli che sono scappati da questa esperienza. La comunità internazionale, tuttavia, non sembrano fare troppo in questa direzione per porre fine con un incubo di altri secoli.

Venduto per 3.200 euro

"Voglio spiegare al mondo cosa sta succedendo."  Lo dice Achaman Agahli, 39 anni, robusto, residente nella città nigeriana di Agadez. Ci riceve in casa sua, una costruzione di base in cui condividono lo spazio persone e capre.
Achaman lavorava trasportando container tra città del deserto. E 'stato un amico che gli ha fatto considerare la possibilità di cercare di raggiungere l'Europa per fare soldi. Si consultò con la moglie e decise di tentare. E’ partito una notte di giugno dell’anno scorso, alle tre del mattino, arrampicato sul retro di una Toyota bianca. Quando stavano per partire, ha sentito il trafficante che aveva pagato, dire al telefono "Ti mando un lotto di 25".   Achaman non diede molta importanza in quel  momento. Dieci giorni dopo avrebbe capito il senso di quell'affermazione.
"L'idea era che ci portassero fino a Madama, al confine tra Niger e Libia, abbiamo fatto, però un giro più largo e ci hanno lasciati ad Al Qatrun, e in Libia. Qui, ci hanno raccolti alcuni libici tubu [membri di un gruppo etnico locale]. Portavano la barba ed erano armati. È stato allora che mi sono detto “ C’è qualche problema, c’è qualcosa di sbagliato. Ci hanno portati a Sabha e ci hanno messo tutti nella stanza di un edificio vuoto ".
Achaman ha trascorso 26 giorni chiuso. “ Ci davano pane e latte. Un giorno, uno degli uomini che ci faceva la guardia ci ha detto “ Non vi diamo di più, perché così non avete la forza di scappare”. Il ventisettesimo giorno arrivò un uomo libico e iniziò a discutere di denaro con il capo dei sequestratori di Achaman. Quella volta sì, udirono la negoziazione. "Io parlo l'arabo. Ho capito ciò che dicevano. Hanno convenuto la vendita di un lotto di 12. Ha detto proprio così un lotto di 12. E ogni partita, per ciascuno di noi, avrebbe pagato 5.000 dinari libici". Quel giorno, Achaman fu comprato per 3.200 euro.
"Il nostro compratore ci portò a casa sua, una grande casa con un vasto giardino in Ubari, a pochi chilometri da Sabha. Era un uomo ricco. Ho trascorso due mesi recuperando perché ero molto malato. Quando sono stato bene, ho iniziato a lavorare. " Achaman doveva nutrire gli animali del proprietario, pulire le stalle, curare l’orto, arare… In cambio, il padrone gli dava un riparo e da mangiare. Poiché parlava arabo diventò il suo confidente. “ Agli altri li disprezzava, però a me trattava bene. Non mi picchiava né mi urlava.  E dopo pochi mesi, era libero di entrare e uscire da casa se era necessario fare delle commissioni ".
E accadde in una di queste commissioni. Achaman disse che doveva andare a Sabha per delle medicine e sulla strada, incontrò un autista nigeriano che lo aiutò a passare il confine.
La moglie di Achaman è morta la scorsa settimana di parto. “ Se n’è andata senza sapere nulla di ciò che mi era accaduto. Non le ho mai detto nulla. Non volevo vederla triste”.


Cinture come frusta.

Adam Souleyman indossa una camicia gialla con un disegno di Don Chisciotte. Ha 24 anni è molto magro e indossa un turbante in testa per proteggersi dal sole e dalla sabbia. Anche se vive ad Agadez, dove ci riceve nel cortile di una casa famigliare, è nato e cresciuto in un villaggio vicino a Zinder, seconda città del Niger, a sud del paese. Da lì, è partito per la Libia verso l’Europa.  L’accoglienza ebbe luogo a Madama, città di confine, dove, ricorda Adam, alcuni miliziani lo gettarono sul pavimento insieme con altri migranti con cui viaggiava. "Hanno preso i nostri documenti e soldi". Da allora, Adam, divenne una merce.
Fu rinchiuso per tre giorni, fino a quando non arrivò un uomo, che Adam ricorda come “ grande e grosso”, discusse il prezzo con i miliziani e prese tre di loro. “ Un ragazzo di Mali, un altro del Burkina Faso e me”. Tutti su un furgoncino. L’uomo ci ha chiusi in un seminterrato. Le finestre erano molto piccole e si affacciava sul terreno sabbioso. C'erano dei tappetini, dove dormivamo. L’uomo ci ha solo detto una cosa “ Sopravvivere è il meglio che potete ottenere da adesso”.
Era il nuovo padrone di Adam e degli altri due ragazzi. E li affittava. "Ogni giorno abbiamo dovuto lavorare in una casa diversa, di ricchi arabi, case molto grandi. Ci svegliava gettandoci acqua fredda e ci tirava dal seminterrato colpendoci con la cintura come se fosse una frusta " Adam riproduce a malincuore il gesto, alzando il braccio. "Quando terminavamo il lavoro, veniva a prenderci e ci rinchiudeva nel sotterraneo. Così ha vissuto Adam per un mese e dieci giorni.
"Ci sono stati giorni in cui non lavoravamo, perché l’uomo non veniva a cercarci. E passavamo la giornata chiusi senza mangiare. Il ragazzo del Mali parlava di farla finita con tutto questo, di suicidarsi, diceva che non ne poteva più. “ E tu?” “ Io no, volevo rivedere la mia famiglia” “ Ti sentivi come uno schiavo?” “ Non mi sentivo, ero uno schiavo”.
Adam passava le notti maledicendo il giorno in cui aveva preso la decisione di andare in Libia. La luce l’ho vista un pomeriggio, quando il padrone di casa lo mandò a una pozza d’acqua per riparare un guasto. "Stavo camminando e  mi sono imbattuto in un camion di lavoratori africani. Uno di loro era hausa come me, così gli urlai e gli chiesi aiuto”. Quell’uomo accolse Adam in casa sua e, poi, trovò un posto su di un camion, per farlo ritornare ad Agadez, dove ora lavora per raccogliere soldi e tornare a Zinder. "Non so cosa sia successo agli altri due ragazzi, del Mali e del Burkina Faso ", dice Adam. "Forse sono ancora lì." Quindi, stringere le mani contro i suoi occhi e piange.





Sette mesi senza vedere il cielo.
Marian copre la testa con un velo rosso. Ha lasciato Lagos, in Nigeria, nel luglio dello scorso anno. Le dissero che dopo un breve tragitto in auto e attraversato un fiume, sarebbe arrivata in Italia. Marian ha 23 anni e vive sul pavimento della stazione degli autobus di Agadez, dove attende di poter ritornare nella sua città. Lì nessuno sa che Mariam è diventata o per sette mesi in una schiava sessuale.

Fu a Tripoli, dopo aver attraversato il deserto con giorni in più del previsto, dopo un errore di orientamento del conducente e dopo aver bevuto dalle pozzanghere che incontravano. "Quando siamo arrivati ​​a Tripoli ci hanno messo in un seminterrato senza finestre. Ho chiesto quando saremmo arrivati in Italia e un uomo mi disse “ Mai”. Per Marian iniziò il calvario.

“ Una donna spiegò la situazione al gruppo di ragazze che eravamo nel sotterraneo. Ci disse che se volevamo tornare a essere libere, dovevamo pagare una quantità (Marian non vuole dire quanto) e che l'unico modo per raggiungere quella cifra era prostituirsi in questo seminterrato”.
Marian ansima: “ Io non smettevo di piangere. E ho rifiutato. E’ arrivato un uomo il primo giorno e mi disse “ Siediti qui”, indicando le gambe ed io gli dissi di no. Allora, il marito della donna che ci aveva spiegato tutto, mi colpì sul volto. Marian gira la guancia come a offrirla. Poi aggiunge: "Ma c'è un momento in cui non vuoi che ti picchino più”.
Se Marian o qualche altra si rifiutava, la donna strappava il foglio in cui era annotato il debito. “ E dovevamo ricominciare da capo”. Ci sono voluti sette mesi per riconquistare la sua libertà. Durante quei sette mesi non ha mai lasciato il seminterrato. Non ha mai avuto modo di vedere il cielo.
"Ora voglio tornare a Lagos. E riprendere la mia vita di prima. Spero che nessuno nella mia famiglia sappia mai ciò che mi è accaduto”.








Legati per i polsi.

Quando spiega la sua tragica esperienza, Nasser Abdul Kader, sorride. Come meccanismo di difesa, come una valvola di sfogo per non crollare. Nasser non fu comprato da nessuno. L’uomo che l’ha schiavizzato lo avevo rapito. Come quasi tutti gli altri, arrivò in Libia con la promessa di raggiungere l’Italia in quattro giorni. Aveva lasciato Agadez, dove era nato e dopo il viaggio, è stato abbandonato per le strade di Sabha, senza soldi né documenti, insieme con altri sei immigrati. "Siamo andati in una piazza in cui venivano uomini a raccogliere i lavoratori per i singole giornate. Ogni volta che arrivava qualcuno, i ragazzi, si avventavano su loro perché li portassero con sé”.
Il terzo giorno, Nasser e un altro ragazzo andarono con un tizio che aveva bisogno di manodopera. “ Ci portò a un allevamento di animali da cortile pieno di galline. Ci mostrò la fattoria e ci disse che il nostro lavoro era di dar da mangiare alle galline e tenerle sveglie durante la notte”.  Nasser fece una smorfia d’incomprensione e spallucce. "Il giorno dopo ci presentò a due uomini armati e molto forti e ci disse che erano i responsabili della sicurezza della fattoria”.
Nasser ha trascorso un mese e mezzo scaricando sacchi di mangimi, alimentando le galline e tenendole sveglie la notte. Tutto cambiò quando Nasser chiese a uno degli uomini della sicurezza quando sarebbero stati pagati. “ Mi guardò, alzò il dito così -Nasser mette il dito indice retto in gesto di minaccia – e mi disse: “ Stai attento, in questo posto non si pagano salari”. Mi spaventai ma il giorno dopo, arrabbiati, ci rifiutammo di scaricare il camion”.
La protesta di Nasser e del suo amico ebbe conseguenze, quando le due guardie videro che i sacchi di mangime non erano stati scaricati. Ci vennero a cercare all’abitazione e ci hanno colpiti con uno spesso filo e anche con una cintura. Dopo, ci hanno mostrato una pistola e di dissero” Se non lavorate, vi uccidiamo e prenderemo altri due negri”.
Da quel giorno, i due ragazzi dovettero lavorare legati l’uno all’altro. "Con una catena di circa due metri, fortemente legata ai polsi. E ci picchiavano con un cavo mentre lavoravamo. Sono diventato uno schiavo”.
Nasser e il suo compagno venivano liberati soltanto quando tornavano in stanza per dormire. "Nessuno sapeva, dove eravamo, non avevamo soldi, senza documenti, senza contatti con l'esterno. E 'stato come essere morto ". La tragedia è durato cinque mesi, fino a quando Nasser è riuscito a fuggire dalla fattoria una mattina in cui due uomini della sicurezza dormivano perché ubriachi.
“ Ai ragazzi che vogliono andare in Europa, dico, non lo fate. Non andate. Vai a morire o a essere schiavo. E gli racconto la mia storia”.  E ti ascoltano? “ No, nessuno. Rispondono sempre la stessa cosa: non ho scelta”.



(traduzione di Lia Di Peri)


martedì 20 giugno 2017

A letto con il nemico

di Andrea Momoitio*




Leda and the Swan | Pintura erotica attribuida a Francois Boucher | 1703 – 1770


In questi giorni sta girando molto sulle reti sociali un articolo di Pilar Aguilar pubblicato dalla rivista Tribuna Feminista, che ha come titolo “ Addolcire il patriarcato chiamandolo eteropatriarcato?” in cui la compagna critica l’uso del termine etero - patriarcato in quanto, a suo avviso, con il suo utilizzo si “ignorano, diluiscono e si sfocano i volti della selvaggia sottomissione che il patriarcato pratica sulle donne”.
Lei allude nel suo argomentare che, le oppressioni sofferte dalle donne e dalle bambine di tutto il mondo vanno ben oltre, che non si hanno “ solamente nella sfera sessuale e non solo ci obbligano a essere etero-sessuali”. Questo è innegabile, ma per me ci sono due argomenti che mi fanno scontrare con l’impianto di Aguilar. Da un lato, il femminismo deve imparare ad adattarsi a ogni contesto. Le comunicatrici femministe sanno (sappiamo) che non sempre è utile parlare di “patriarcato”, perché un requisito indispensabile per la comunicazione è saper adattare il messaggio alle persone che devono riceverlo. Il pensiero femminista come ogni ideologia con la quale vogliamo influenzare il pensiero della società, deve sapersi adattare ai diversi contesti nella sua lingua. Naturalmente non possiamo predicare come Butler. Questo, tuttavia, non può essere la ragione per cui il femminismo continui a dimenticare come l'eterosessualità influenza direttamente le violenze che noi donne subiamo. Una cosa è che non sempre sia utile parlare di etero-patriarcato e, altra cosa, è non riconoscere che sia un termine più preciso e completo.
In secondo luogo, e questo è per me il punto principale, parliamo di etero-patriarcato, perché l’etero-sessualità è lo strumento principale che il patriarcato possiede per perpetuarsi. Brucia, ovviamente, perché significa che, forse, dobbiamo additare gli uomini della nostra cerchia come i colpevoli delle violenze che subiamo, però, l’etero-patriarcato s’incarna in mio padre, in mio fratello e in tutti i vostri mariti. Questi sono nell’ingranaggio, nel meccanismo. Possono esserlo, anche perché,li vogliamo.
Se non siamo riusciti a rovesciare il patriarcato, è anche perché si basa sui legami più intimi. Si tratta di una struttura sociale, ovvio, ma i suoi pilastri si stabiliscono in casa. Se fossero solamente disuguaglianze a livello politico, economico e sociale, saremmo più vicini a rovesciarlo. Se continua a rimanere impiantato nella nostra vita, è perché questa disuguaglianza nasce e scorre nella nostra vita più personale. E siamo fottute, molto fottute, perché quelli che ci uccidono, ci aggrediscono, ci ignorano o ci rendono invisibili, sono gli uomini del nostro ambiente più vicino. Alcune scopano con il nemico. Le disuguaglianze salariali rimangono essendo pane quotidiano perché, con la premessa dell’etero-sessualità, il salario della donna resta il salario secondario.
Continuiamo a non stare in prima linea nellapolitica e negli affari, perché sotto la logica eterosessuale non siamo educate a fare carriera ma a formare le famiglie; migliaia di donne sono ancora vittime di ablazione per preservare una purezza che, culturalmente, le vuole, destinate a loro; il dibattito sulla maternità surrogata è sul tavolo, perché uno dei principali mandati del patriarcato, che s’incarna particolarmente nell’eterosessualità, è ancora formare una famiglia. L’autonomia delle donne e la nostra liberazione è incompatibile con l’eterosessualità. Solo quando siamo completamente indipendenti dagli uomini a livello emotivo, smetteranno di ammazzarci e non mi riferisco al raggiungimento di un’autonomia individuale ma come classe.
Il prefisso etero del patriarcato non solo prova ciò ma rende palpabile che l'eterosessualità è uno dei motivi principali per cui il sistema patriarcale rimane indenne. Indenne perché c’è un carceriere in ogni casa, un carceriere per ogni donna. Trovo incredibile che dal movimento femminista in cui abbiamo sempre detto che ciò che non si nomina non esiste, ora si neghi l’importanza di sfumare questo concetto, di puntare non soltanto il sistema ma anche gli strumenti che lo sostentano. Parlare di etero-patriarcato sottolinea la struttura e lo strumento.

E’ un concetto, inoltre, poliedrico che facilita il fatto che si possa parlare delle oppressioni che subiamo. Oppressioni che sono mediate dalla logica eterosessuale.
La lesbofobia è una brutta bestia perché le lesbiche hanno osato mettere in discussione lo strumento con cui il patriarcato pretende di sottometterci. Sottolineare che è importante parlare di etero patriarcato, dimostra che un certo settore del femminismo continua a non riconoscere i contributi del femminismo lesbico e il valore sovversivo e politico di non scoparsi il nemico e, soprattutto, portare il pensiero femminista a tutte le aree della nostra vita, senza sfumature, dalla più pura rabbia e radicalità.

Froci, frocie e trans, da diversi punti di vista e in diversi momenti storici abbiamo messo in dubbio le nostre identità e desideri per seguire, articolandolo, il pensiero femminista. Abbiamo assunto che il nostro modo di scopare e la maniera in cui ci siamo istruite socialmente, risponde a una tema che trascende il mero orientamento sessuale. E’ tempo, compagne eterosessuali, che facciate lo stesso.
La eterosessualità è anche un regime politico.

*giornalista, collaboratrice della rivista Pikara Magazine.

(traduzione di Lia Di Peri)

andrea momoitio



giovedì 18 maggio 2017

L' etica animale. Una questione femminista?

Angélica Velasco Sesma 








La filosofa Angélica Velasco Sesma pubblica La etica animale. Una questione femminista?  
in Colección Feminismos de Ediciones Cátedra.
Pubblichiamo l’introduzione a questo saggio antispecista, che solleva la necessità di comprendere la dominazione degli altri animali dalla prospettiva di genere e la critica al sistema patriarcale. Mercoledì 17 maggio si terrà una tavola rotonda su questo libro di rappresentanti politici che sarà moderata dallo storico e scienziato Ricardo Campos e dalla filosofa eco - femminista Alicia H. Puleo.


L'etica è una delle discipline della filosofia con maggiore coinvolgimento nella nostra vita quotidiana e della società nel suo complesso. Costituisce anche una delle aree di ricerca di più intensa oggi produzione filosofica. Uno dei suoi risultati innovativi è l’Etica Ambientale, legata alla nascita di nuove conoscenze scientifiche, così come la percezione di fenomeni d’inquinamento, perdita di biodiversità, desertificazione, ecc. Da alcuni rami dell’Etica Ambientale, si è sostenuto che ciò che è moralmente rilevante sono le totalità: le specie, gli eco-sistemi, la bio-sfera.
In queste teorie, i singoli soggetti perdono di significato morale.


Viceversa, le etiche atomistiche sostengono che sono proprio gli individui importanti. Nel caso di posizioni sensocentriche, la considerazione morale si estende a tutti i singoli animali. Certamente, come giustificare che non è moralmente rilevante nuocere a un individuo in grado di sentire dolore? È sufficiente fare appello alle nostre capacità cognitive più elevate per legittimare lo sfruttamento degli animali e per escluderli dalla cerchia della considerazione morale? Un carattere moralmente ammirevole può essere basato sul dominio del non umano? Questi sono alcuni dei temi affrontati dalla cosiddetta etica animale e alla quale mi si avvicinerà lungo queste pagine.

Nell'approcciare dall’Etica la questione del nostro rapporto con gli animali, ci allontaniamo dalle correnti egemoniche che hanno considerato questo tema una questione irrilevante. Escludere dalla cerchia della considerazione morale esseri senzienti che possono essere colpiti dalle nostre azioni, non sembra soddisfare le esigenze di un'etica veramente universalistica. Allo stesso modo assumere l’appartenenza all’umanità come criterio per legittimare l'assenza di considerazione morale rispetto al resto degli animali presuppone il mantenimento della struttura gerarchica di pensiero che vede la differenza come inferiorità e l’inferiorità come motivo di dominio.

Pensatori come, François Poulain de la Barre o John Stuart Mill, hanno affermato che la disuguaglianza tra i sessi è il pregiudizio più universale. Quest'ultimo filosofo ha sostenuto che, in più, è il pregiudizio più interessato di tutti perché cerca il potere per metà dell'umanità.
Che cosa potremmo dire, allora, del pregiudizio di specie o specismo che concede la sovranità assoluta a una specie su tutte le altre?  Lo specismo è stato respinto come un pregiudizio illegittimo, poiché sostiene che il criterio della moralità sia l’appartenenza alla specie umana.  Come ha ricordato la filosofa Celia Amorós, i pregiudizi non sono innocenti ma sono associati agli interessi di chi si colloca in una posizione di dominio.
Applicando questa riflessione alla questione degli animali, siamo in grado di stabilire che negare loro la rilevanza morale non è qualcosa casuale ma un modo per garantire che qualsiasi interesse umano, sia vitale o banale, ha un'importanza assoluta, quando è in conflitto con gli interessi degli animali. Chiamo ideologia della subordinazione/dominio/sfruttamento degli animali l’insieme di credenze che stabilisce che gli esseri umani hanno il diritto di soddisfare tutte le loro necessità a spese dello sfruttamento degli animali. Gli argomenti dell’antropocentrismo estremo determinano la priorità generale dei problemi umani, affermando che,solo quando questi saranno stati risolti, sarà legittimo affrontare i problemi del nostro rapporto con gli animali. E 'facile vedere che questo argomento implica un rinvio sine die della questione degli animali nello stesso modo che il marxismo, rinvia sine die la causa delle donne al trionfo del socialismo.
A livello internazionale, la difesa degli animali è stata guidata, in modo schiacciante, dalle donne. Anche all'interno della produzione teorica, molte pensatrici hanno centrato i loro sforzi intellettuali a sostegno del trattamento rispettoso nei loro confronti. Tuttavia, paradossalmente, sono gli uomini che ricevono maggiore riconoscimento nell’ambito dell’Etica Animale.
Questo libro affronta la questione dell’Etica Animale come questione femminista, partendo dalle connessioni tra il dominio di genere e di specie. L’animalizzazione e la naturalizzazione delle donne hanno permesso di giustificare il loro assoggettamento agli uomini. Esse sono state considerate come le più vicine alla natura. Esiste però, davvero, un legame privilegiato tra le donne e la natura? Dall'antropologia si è ipotizzata l’universalità della subordinazione femminile a seguito di una presunta maggiore vicinanza delle donne alla natura. Sia le donne come i lavori di mantenimento della vita, tradizionalmente svolte da esse conterebbero, quindi, in misura minore rispetto agli uomini e alle attività in ambito pubblico. La donna sarebbe l’intermediaria tra la cultura e la natura. Quest’ultima è stata considerata inferiore alla prima in pratica in ogni società conosciuta. La naturalizzazione delle donne e la sottovalutazione della natura sono state elementi costanti nella storia dell'Occidente. E l'idea delle nature differenti e complementari dei sessi è stata un argomento ricorrente per legittimare la società patriarcale. 

Per verificare l'ipotesi che l’Etica Animale è una questione femminista, nel primo capitolo, vi presento le teorie più influenti per potere, poi, esaminare il suo pregiudizio androcentrico.
A seguito di un controllo di alcune delle posizioni che certi filosofi di fama hanno mantenuto sulla cosiddetta questione degli animali, analizzo gli argomenti che si sono dati dall’utilitarismo per giustificare l’ampliamento della cerchia di considerazione morale di là dalla nostra specie.

Nel suo classico Liberazione Animale, Peter Singer, punta sulla stessa linea di Jeremy Bentham, per applicare il principio dell’uguale considerazione d’interessi anche agli animali perché sostiene che l'unica frontiera legittima nella considerazione morale è la capacità di soffrire e di godere. Una volta sviluppati gli approcci di Singer, mi concentro sulle critiche che queste proposte utilitariste hanno ricevuto da parte di Gary Francione, così come dal Progetto Grande Scimmia come un tentativo di concedere il diritto alla vita, all'integrità fisica e la libertà alle grandi scimmie antropoidi.  In seguito, analizzo la proposta deontologica di Tom Regan, che intende concedere diritti agli animali in base al loro status di soggetti-di-una- vita. Termino il capitolo con un approccio alle altre prospettive di etica animale, come quelle di Peter Carruthers, Mark Rowlands o Martha Nussbaum.

Tuttavia, i cosiddetti teorici dei diritti degli animali, Peter Singer e Tom Regan, hanno mantenuto la polarizzazione androcentrica dell’Etica che considera le emozioni come inferiori alla ragione  in modo che quest'ultima debba dominare la prima. Hanno cercato di basare le loro proposte sulla capacità razionale e nei principi universali . Pertanto, nel secondo capitolo, presento l’Etica, della cura come uno sviluppo femminista dell’Etica che integra questi elementi.

Negli anni ottanta del XX secolo, come reazione alla classificazione dei livelli di pensiero morale da Lawrence Kohlberg all'Università di Harvard, si intraprese un esame critico della gerarchizzazione tradizionale dell’Etica che denigrava l’empatia e altre attitudini e virtù necessarie per prendersi cura degli altri. Queste virtù erano davvero forme morali inferiori? La ricerca pionieristica appartiene allo stesso ambiente accademico di Kohlberg. Nel titolo del lavoro di Carol Gilligan – in Different Voice si parlava di "un'altra voce" proveniente da diverse esperienze derivate probabilmente  dalle forme di organizzazione dei lavori di uomini e donne nella storia.
 
Si è iniziato così a pensare  che le classificazioni della Filosofia Morale si appoggiavano esclusivamente sull’esperienza dell’ambito pubblico, escludendo o sottovalutando le virtù connesse con le pratiche delle donne in ambito domestico, alla cura dei famigliari a carico: bambini, malati e anziani. La cura può essere universalizzata in modo che venga riconosciuta come una virtù sia per gli uomini sia per le donne. Con sfumature diverse, tutte le teorie raggruppate sotto il nome di Ethics of Care rilevano l'apprezzamento della situazione e del carattere personale e concreto dell’etica come relazione.
Siamo tutti interdipendenti sostengono,apprezzamento che mantiene la somiglianza con l'idea di complessità degli ecosistemi e che alcuni pensatori hanno applicato alla loro difesa degli animali.
Il superamento del pregiudizio androcentrico  si tradurrà in una trasformazione dell’Etica in cui le emozioni,le virtù della cura e l’attenzione al contesto e alle relazioni appaiono come elementi legittimi della moralità, elementi che saranno indispensabili nel caso dell’Etica Animale. Sarà necessario, includere, quindi, emozioni e sentimenti come componenti essenziali dell’Etica, poiché permettono di spiegare la motivazione morale.
L’enfasi che le teorie egemoniche hanno posto nella Ragione e il tentativo di eliminare le emozioni considerandole elementi negativi, dimentica che gli umani,
non sono solo esseri razionali ma che l’emotività è una parte costitutiva di essi. È pertanto necessario superare la svalutazione delle emozioni e raggiungere teorie nelle quali la capacità razionale e quella emotiva si vivano egualmente necessarie.
Quindi, è possibile e auspicabile un’Etica Animale rigorosamente basata su principi universali che non considerano la nostra risposta emotiva allo sfruttamento degli animali?


E’ sufficiente un’Etica Animale che si proponga di analizzare i nostri comportamenti con i non-umani dal punto di vista morale, ma che non prenda in considerazione i comportamenti di genere che sottendono al dominio degli animali? Basterà  proporre un'estensione dell’etica  in modo che i nostri atteggiamenti morali riguardano anche il mondo non umano, ma non si avvicinano a eliminare la disuguaglianza di genere? Sono necessari i valori di cura per l’Etica Animale o bastano i principi universali della giustizia? E’ auspicabile un’Etica Animale non sessista ma fortemente androcentrica?  Quale  trasformazione sociale, culturale e personale potrebbe essere raggiunto basandosi  su tali teorie di polarizzazione androcentrica?  
E, ugualmente, una teoria femminista che non analizzi in modo approfondito il nostro rapporto con la natura e con gli individui non umani sarà una teoria completa e in grado di soddisfare le esigenze che richiedono la situazione attuale e la evoluzione morale? Può il femminismo avere successo se si dimentica la subordinazione e sfruttamento in cui si trovano migliaia di milioni di animali non umani come risultato del nostro atteggiamento di dominio? E 'possibile smetterla con un tipo di oppressione se non si va alla radice stessa dell’oppressione?  Che tipo di persone siamo se non concentriamo i nostri sforzi per farla finita con una classe d’ingiustizia ma restiamo indifferenti per le altre? E 'possibile raggiungere un pensiero critico ed egualitario senza occuparsi della interconnessione tra le diverse forme di oppressione? Femminismo ed Etica Animale devono necessariamente integrarsi?

Anche, se parto dalla convinzione che, ogni movimento deve affrontare seriamente i suoi obiettivi specifici, se non si raggiunge una più ampia visione dell’oppressione, si rimane particelle isolate senza raggiungere una comprensione globale dei problemi che permetta di affrontarli in modo soddisfacente. E’ stato proprio l’eco-femminismo che ha mostrato che i diversi sistemi di dominio sono collegati a livello concettuale. In conformità a questa constatazione, è facile capire che si tratti di un imperativo morale e di una necessità pratica analizzare queste connessioni in modo olistico e cercare di superarli attraverso un lavoro congiunto e globale.
Nel modo in cui è stata concettualizzata e si concettualizzano l'umanità, la natura, le donne e gli animali traspare un particolare modo di percepire e comprendere la realtà. Una visione arrogante del mondo, dell’essere umano e della filosofia limita la possibilità di trasformazione politica ed evoluzione morale. Viceversa, nozioni egualitarie e rispettose, dualismi che non si presentano in forma gerarchica permettono di sviluppare un pensiero in cui la differenza non serva come pretesto per il dominio. Questo è ciò che ha preteso l’eco-femminismo: fornire teorie etiche e politiche emancipatrici impegnate con l'uguaglianza e il rispetto per la natura. Così, una volta affrontato la questione dell'etica della cura, passo, nel secondo capitolo, ad analizzare le idee fondamentali di questa corrente femminista che capisce i problemi ecologici e il nostro modo di interagire con la natura come qualcosa che può essere affrontato dalla prospettiva di genere.

In primo luogo, conosceremo le ragioni per cui molte femministe hanno iniziato a preoccuparsi per le questioni ambientali dando luogo all’eco-femminismo come teoria e pratica. Come vedremo, anche se le teorie eco-femministe sono diverse, tutte coincidono nel sottolineare che esistono più collegamenti tra il femminismo e l'ambientalismo e che una corretta comprensione di questi collegamenti è essenziale per raggiungere l'Etica Ambientale, una teoria femminista e un movimento ambientalista di successo. Mi occuperò quindi delle analisi di queste connessioni. Verificheremo, quindi la necessità di sottolineare che il dominio della natura e di dominio delle donne sono collegati e che qualsiasi Etica Ambientale che non si occupi di questa realtà genererà spiegazioni e programmi d'azione inadeguati e incompleti. Intraprenderò lo studio del cosiddetto eco -femminismo classico, in cui si accetta che le donne abbiano per essenza un legame speciale con la natura e si difende la necessità di rivalorizzarla. La natura sarà pertanto superiore alla cultura e la soluzione alla crisi ambientale passerebbero per un recupero dei principi femminili di cura, amicizia e amore, superando i valori maschili di violenza e di dominio. Questo essenzialismo delle ecofemministe classiche è stato giustamente criticato e respinto sia dal femminismo sia dall’eco-femminismo. Con quest’approccio ai principi essenzialisti comprenderemo la necessità di affrontare il legame tra genere e ambiente dal punto di vista costruttivo, che non accetti l'esistenza di una sorta di amabile essenza femminile e l’altra maschile violenta.

Poi,uno studio della filosofia di Karen Warren e di Val Plumwood, ci fornirà validi elementi per sviluppare proposte etiche impegnate con la sostenibilità e l'uguaglianza. Trovo particolarmente rilevante l’idea di Warren della necessità di trasformare il nostro atteggiamento verso la natura,da arrogante alla percezione affettiva del mondo non umano e il suo concetto di logica del dominio. Tuttavia, il suo rifiuto dei principi e dei diritti rappresenta un rischio effettivo per la  tutela dei non-umani. L'eco-femminismo critico elaborato da Alicia Puleo supera le debolezze di alcune teorie eco-femministe. Questa proposta è ora essenziale, perché la sua difesa dell’uguaglianza, il pensiero critico, l'antropocentrismo moderato, la eco-giustizia, l’empatia e la compassione, tra gli altri fattori, non porta al rifiuto dei diritti e dei principi universali di giustizia, ma concilia in modo intelligente ragione ed emozione, giustizia e cura.

La crisi ecologica e di civiltà in cui viviamo ci impone di ripensare il nostro rapporto con la natura e capire la nostra dipendenza da essa. Concepire i nostri corpi come naturali e riconoscere la nostra animalità favorirà un modo più rispettoso di rapportarci sia con la natura sia con gli animali. Questo riconoscimento è essenziale per raggiungere una cultura di uguaglianza e rispetto.
La ri-concettualizzazione di concetti come “natura” o “essere umano” che può insorgere a seguito della rivalutazione dei nostri aspetti corporei ed emotivi, così come delle qualità tradizionalmente considerate femminili, è un passo imprescindibile per costruire le basi di una società pacifica, giusta ed ecologica.
La posta in gioco è la definizione stessa di essere umano: decideremo tra un soggetto che mantiene il dominio sia sulle persone sia sulla natura e gli animali che basa la sua esistenza sullo sfruttamento dei più deboli, e un altro soggetto che accetta la sua interconnessione con il mondo naturale e lavora  per costruire rapporti di rispetto con tutte e tutto ciò che lo circonda.

Dalla prospettiva dell’eco-femminismo si è ampiamente analizzato il modo di interagire con gli animali e le implicazioni etiche di questo rapporto.  I capitoli terzo e quarto sono dedicati a queste riflessioni e argomentazioni. Le teoriche eco-femministe hanno criticato il dualismo gerarchizzato ragione / emozione che persistono nel pensiero dei filosofi animalisti prima citati e hanno sviluppato teorie non androcentriche alternative e / o complementari.
Deborah Slicer, Carol Adams, Alicia Puleo, Val Plumwood o Vandana Shiva sono alcune di esse.
Noi verificheremo qui che le differenze tra le posture atomistiche e olistiche, dando luogo a differenze di opinione in molti casi difficili da risolvere, generando in ogni caso, interessanti dibattiti che arricchiscono l'Etica Animale.


Dopo aver esposto queste idee,  che evidenziano la necessità di includere la prospettiva di genere anche in questo campo dell'Etica, esamino i rischi di voler basare l’Etica Animale esclusivamente sui valori della cura come da alcuni sostenuto. Noi verificheremo che, nonostante l’importanza dell’Etica della cura, una difesa esclusiva di questi valori e un rifiuto dei principi universali di giustizia e di diritti, porta a teorie non in grado di garantire la difesa dei non-umani.Infine, l'analisi del dibattito sulla prostituzione mi aiuta a sviluppare le mie idee sulla subordinazione, dominio e sfruttamento degli animali, sostenendo che se il personale è politico, se lo è la sessualità, il rapporto con il nostro corpo e il tema della prostituzione, politica è anche il nostro rapporto con gli animali.
L'oggettivazione delle donne e degli animali e la concezione dei loro corpi come semplici merci sono un segno evidente che, anche in relazione al corpo stesso, vi siano rapporti di potere.
Ana de Miguel ha giustamente sostenuto che nella questione della prostituzione è in gioco il concetto stesso di essere umano. L'ideologia della prostituzione, che sancisce il diritto di tutti gli uomini a soddisfare le loro necessità sessuali, legittima una pratica nella quale prevalgono le relazioni di disuguaglianza, una pratica che rafforza l'idea che le donne sono pezzi di carne e contribuisce a costruire un mondo più ingiusto.
Partendo da queste argomentazioni sostengo che, nella questione degli animali, sono in gioco il concetto di umano e il mondo nel quale vorremmo vivere. Nello stesso modo in cui il prostitutore mostra un carattere riprovevole nello ignorare le circostanze e i sentimenti delle prostitute, anteponendo in modo egoististico i suoi desideri sessuali, il consumatore di prodotti di origine animale elude la sua responsabilità nel proseguimento della sofferenza e del dominio. Concludo, pertanto, che la difesa degli animali è una questione femminista, che dovrebbe essere affrontata con la serietà che richiede un problema così rilevante.
L'ecofemminismo ha scelto di scoprire la logica del dominio che collega i diversi sistemi di oppressione e di collegare le lotte femministe con quelle ambientaliste. Come ha affermato Karen Warren, è una questione femminista tutto ciò che aiuti a capire l’oppressione delle donne. Pertanto, non solo le questioni ambientali, ma anche la questione degli animali è necessariamente una questione femminista. Lo sfruttamento degli animali è una scuola di desensibilizzazione morale. Una personalità moralmente ammirevole è necessariamente lontana dai comportamenti di dominazione e s’impegna a rispettare tutti gli individui, umani e non umani. Questa personalità richiede necessariamente il rifiuto di ogni forma di sfruttamento e un impegno in direzione della cura applicato sia agli umani, sia alla natura sia agli animali.Una società nella quale realmente si rispettino i principi democratici di uguaglianza, libertà, fratellanza/sorellanza così come la pace, la giustizia e la sostenibilità, richiede cittadini e cittadine impegnat* con questi principi e i valori della cura. Questo impegno deve essere un impegno sentito, vivo. Come ha ben sostenuto John Stuart Mill, una democrazia autentica richiede un cambiamento radicale nella natura umana. Questa idea è pienamente in vigore nel XXI secolo. Qualsiasi trasformazione politica deve essere accompagnata da un'evoluzione morale degli individui. Si tratta di un fenomeno di retro-alimentazione. E i nostri atteggiamenti etici devono estendersi anche alla natura e agli individui non umani. 

Nel nostro atteggiamento verso gli animali traspare un particolare modo di essere. Infatti, nel nostro comportamento con i più deboli dimostriamo il nostro impegno morale e livello di coinvolgimento con i valori della cura, giustizia e rispetto. La visione androcentrica del mondo legata al distacco emotivo, la competitività, la violenza e l'oppressione è mantenuta quando non ci si occupi della sofferenza dei non umani. Pertanto, è fondamentale superare questa visione androcentrica e ampliare la cerchia della considerazione morale, includendo tutti quelli che sono colpiti dalle nostre azioni. La (r) evoluzione morale che esige il momento attuale comprende la critica al sessismo, all'androcentrismo,  all'antropocentrismo estremo e all’arrogante visione del mondo non umano.

Come ho voluto dimostrare in queste pagine, un progetto etico veramente emancipatore deve affrontare tutte le forme di dominio e cercare di superarle. I diversi sistemi di oppressione sono collegati concettualmente attraverso la logica del dominio. Come mantenere, quindi, che una proposta etica è veramente universalista e liberatoria, se non si capisce questa connessione? Come considerare un carattere virtuoso se le sue pratiche sono fondate sul dominio dei più deboli? Come raggiungere un mondo basato su principi democratici di libertà, uguaglianza, fratellanza / sorellanza, solidarietà e sostenibilità, senza prendere in considerazione la nostra interconnessione, interdipendenza, con la natura e gli animali? Come raggiungere un’Etica Animale soddisfacente se non s’incorpora una prospettiva di genere?
Queste sono le domande che guidano questo libro e cercherò di rispondere da quelle pagine.


(traduzione di Lia Di Peri)


Eldiario.es

domenica 14 maggio 2017

Madri nella trappola dell'amore romantico

Beatriz Gimeno





Se nulla si valuta di più in una donna quanto quella di essere una buona madre, poche cose sono così disprezzate come quella di essere una cattiva madre. L'ambivalenza che tutte le culture presentano davanti alla maternità, ha a che fare con il fatto che tutte esse amano e hanno paura delle madri allo stesso modo. Tutte le culture riservano il meglio per le madri che incarnano la madre patriarcale e il peggiore per quelle che sono percepite come incontrollabili. Il ruolo materno è antropologicamente ambiguo. Da una parte, la capacità di essere datrice di vita è anche associata con la vicinanza alla morte: chi dà la vita può toglierla. In secondo luogo, il figlio maschio in tutte le culture, per diventare parte della società degli adulti, deve non soltanto abbandonare la madre ma, in più, disprezzarla poiché tutte le mascolinità egemoniche si costruiscono contro le donne, in contrapposizione a quello che sono e a quello che gli uomini sono stati in alcuni momenti: fragili e dipendenti. La madre ricorda quello che gli uomini furono e tutte le culture lottano per cancellare: passivi, vulnerabili, dipendenti.


Tutte le culture sono disposte intorno a questo polo di amore e paura della madre, allo stesso tempo, dipendenza e disprezzo; e le due immagini della buona/cattiva madre che conosciamo, rispondono a questa costruzione. La buona madre è quella patriarcale, che non rappresenta nessun pericolo e non genera angoscia ma, al contrario, offre amore incondizionato.
La cattiva madre è quella anti-patriarcale, non sottomessa alle regole, non si adatta, non assume in sé quelle caratteristiche che ogni società prescrive e il suo peggior peccato è di non volere abbastanza per la sua prole o, che è lo stesso, voler bene a se stessa in modo uguale o anche di più. La cattiva madre non è disprezzata ma è quella che genera panico, è una strega, in grado di liberare le forze più oscure. Bisogna dominarla per dominare la natura (femminina) e imporre la cultura così da non  riconoscersi in questo ruolo che è uno dei pochi ruoli permessi alle donne in cui vi è una chiara ricompensa emotiva; uno dei pochi posti che le fanno sentire superiori agli uomini, facendo qualcosa che essi non possono fare. Inoltre, è un ambito di potere.

La funzione della madre è insostituibile nell’allevamento della prole e quest’allevamento, seppure faticoso che sia, produce soddisfazione e compensazioni a tutte le restrizioni e le disuguaglianze che accompagnano la vita delle donne sin dal suo inizio. Le donne private di tutto, sono condannate a cercare questo spazio di riconoscimento materno e saranno sempre madri, lo siano veramente o no, perché il ruolo materno si può eseguire in molti modi. Saranno madri dei loro figli e delle loro figlie; saranno madri dei loro pazienti se sono infermiere o assistenti professionali; saranno le madri degli alunni e delle alunne se sono insegnanti e saranno madri anche dei loro partner (la “madre-sposa” nelle parole di Marcela Lagarde). Le caratteristiche dell’amore materno saranno presenti in quasi tutti i rapporti sociali che le donne intraprenderanno. L’Amore sarà la cosa più importante per loro, dare amore sarà la loro vocazione. Così le donne saranno le grandi donatrici di amore e anche se si presume che quest’amore non aspetta contropartita, esse la aspettano egualmente, nonostante non si mostri né se ne abbia consapevolezza.  Le donne, che sono sempre al servizio degli altri, attendono un cambiamento della loro consegna, essere almeno amate e, quindi, non incontrare l’amore o perderlo dà loro un enorme dolore e angoscia, una totale perdita di senso. Le donne ameranno in modo apparentemente generoso ma in fondo aspettano di ricevere una contropartita e come l'amore che danno non ha misura così, se non ricevono la stessa quantità, sentiranno frustrazione, dolore, angoscia, sentimenti di colpa e ostilità allo stesso tempo.
Questa è la trappola d'amore per tutte le donne.

Nel corso della storia occidentale, contrariamente a quanto comunemente si pensa, le donne non sono state necessariamente queste madri dedite al sacrificio che conosciamo ora. La maternità ha una storia del tutto sconosciuta e che ci giunge velata dall’anacronismo. La storia della maternità è piuttosto la storia della resistenza delle donne a doverlo essere a discapito di se stesse. Non è l’oggetto di quest’articolo, però le donne hanno lottato sempre per non lasciarsi intrappolare in una maternità che le consumava. Durante la maggior parte della storia, le donne hanno combattuto contro un ideale materno che tentavano di imporre; un ideale di perfezione che spesso interiorizzavano e da cui giudicano, spesso con senso di colpa, la propria maternità. C’è l’ideale e c’è la potente immagine della buona madre, però non esiste né è mai esistito un vero e proprio spazio in cui poter parlare, esprimere, rendere visibile, tutto il dolore, la rabbia, la frustrazione, l'esperienza della maternità, un’esperienza che quasi mai è stata scelta, anche ora, poiché non c’è alcun discorso né rappresentazione anti-maternità, come ho scritto in altre occasioni. Uno spazio vero contro le rappresentazioni maternali occorrerebbe crearlo per avere davvero la capacità di scelta.


Le donne sono ancora le madri, e vogliono esserlo. Desiderano essere madri perché è difficile immaginare un altro modo di essere donna, perché questo spazio potenzia personalmente e perché guarisce in parte la ferita che le donne tentano sempre di riempire con l’amore. Abbiamo bisogno di amare e di essere amate, ciò ci permette di auto-realizzarci. Essere madri presuppone generare qualcuno da amare e che ci amerà sempre; è un amore che immaginiamo sicuro, un amore che dipende interamente da noi, non come l'amore romantico, così insicuro.
Quando ho iniziato a lavorare su rappresentazioni e argomenti anti materni e mi sono resa conto che questi spazi non esistono in questa cultura, ho costatato anche il rafforzamento dell’espansione di un nuovo tipo di amore materno legato ai cambiamenti sociali delle donne che stiamo vivendo. Sappiamo che fin dagli anni ’70 ma soprattutto a partire dagli anni '80, il lavoro materno nei paesi ricchi dà un giro di vite e si trasforma in ciò che Sharon Hays ha chiamato " maternità intensiva" e che, per inciso, contrariamente a quanto talvolta si sostiene, è un tipo di maternità che si è cercato di imporre solo in quei periodi storici, in cui è possibile notare un rafforzamento dei ruoli tradizionali delle donne: nel Rinascimento europeo e nei secoli XVIII e XIX, come risposta alle prime rivendicazioni femministe e alla Prima Ondata di femminismo (in ogni caso, non così intensiva come ora).

Negli anni ’80 nasce la maternità intensiva come un modo per capire il lavoro materno, che è contrario alla pratica della maternità com’era stata diffusa dalle femministe dagli anni ’60. Quella che è arrivata con la seconda ondata femminista era una maternità che metteva in discussione le caratteristiche tradizionali della buona madre, soprattutto imposte fin dal XIX secolo, come manifestazione della maternità borghese. Ciò che il femminismo metteva in discussione era lo zoccolo duro ideologico di questa maternità: il sacrificio, la dedizione, la disponibilità assoluta, ecc., caratteristiche tutte della buona maternità contemporanea e che sono anche le caratteristiche dell’amore offerto dalle donne. Il femminismo ha cercato di offrire alle donne un sogno egualitario. I decenni successivi sono stati di lotta ideologica. Negli anni ’80 arriva il neoliberismo e con lui, la re-ideologizzazione della maternità.

A mio parere, il successo dell’ideologia della maternità intensiva (intensiva in termini di tempo, sforzo e sacrificio) ha a che fare con molti fattori impossibili da analizzare qui, ma ha anche molto a che fare con il femminismo della Seconda Ondata che, con i suoi indubbi successi, non significò per molte donne la fine della discriminazione. La libertà senza uguaglianza può diventare un pesante fardello. Se è vero che il femminismo della Seconda Ondata è riuscito a cambiare il mondo in gran parte, è anche vero che è possibile che la vita di molte donne non sia più facile o almeno non tanto quanto avremmo voluto.
Il bisogno, non solo il desiderio di incorporarsi a un mercato del lavoro, sessualmente discriminato è stata un’esperienza non molto soddisfacente come ci si poteva aspettare: divario salariale, bassi stipendi, precarietà, tetto di cristallo, questo è ciò che attendeva le donne nel mercato del lavoro e, inoltre, non si è prodotto il necessario cambiamento nella sfera privata come una vera e propria condivisione del lavoro riproduttivo con gli uomini. In queste condizioni e con l'avanzata ideologica del neoliberismo, era prevedibile che, a un certo punto, si verificasse un ripiegamento su questi spazi mistificati, soprattutto, quello della maternità, che sono più in linea con le aspettative culturali delle donne e che offrono maggiori soddisfazioni soggettive. Sorgono, allora, nuovi modi di vivere la maternità, della quale voglio sottolineare in questo lavoro una di quelle che mi appare molto interessante per le sue numerose implicazioni. E' la maternità romanizzata, che è collegata con l’amore romantico. Credo che sia possibile pensare che negli ultimi anni è apparso un modo di vivere la maternità che potrebbero essere vista come una sostituta dell'amore romantico.
Sappiamo che, soprattutto da quando alcuni anni, l’amore romantico si trova al centro della battaglia femminista. Non sono poche le autrici che lo considerano responsabile di gran parte della costruzione diseguale delle relazioni, così come della costruzione di soggettività femminili passive e dipendenti. Questo essere per l’Altro, questo porre tutte le speranze nell’arrivo del principe azzurro, vivere l’oggetto amoroso come piena auto-realizzazione e darsi a quest’amore totalmente sopra i propri desideri,le proprie ambizioni personali,il sacrificio che quest’amore esige e che tante volte chiede: in definitiva la rinuncia a se stessa, è stata denunciata come una delle principali fonti di oppressione.
Nonostante che l’amore romantico è lungi dallo scomparire e continua a essere molto importante (basti vedere le rappresentazioni culturali dello stesso o le costruzioni soggettive delle adolescenti) la verità è che, socialmente, è cambiato. Sottoposto a critiche e pressioni, è diventato più instabile e fragile e ha subito cambiamenti. Sono scomparsi o sono stati modificate molte delle sue importanti caratteristiche, come l’obbligatorietà della monogamia femminile che è stata sostituita dalle monogamie successive; è scomparsa anche la valorizzazione della verginità e della passività femminile e, soprattutto, molte donne non sono più disposte a consegnarsi completamente all'amore, a soffrire per amore, o almeno non sono disposte a sacrificare tutti i loro interessi all’amore romantico. V'è una crescente svalutazione sociale di questo sacrificio.
Inoltre, anche se fino a poco tempo una parte fondamentale dell'identità femminile, com’è la maternità,dipendeva interamente dall’amore eterosessuale, dal matrimonio, questo è cambiato radicalmente e la maternità è sempre più staccata dall'amore eterosessuale: madri lesbiche, madri single, madri adottive, per fecondazione artificiale, ecc. Ci sono stati cambiamenti fondamentali nel nostro modo di vivere la maternità che hanno a che fare con l'individuazione e la re-privatizzazione della vita propria del neo-liberismo. La maternità contemporanea è esaltata per se stessa, vale a dire, non è vincolata, come prima, al matrimonio, alla coppia né certamente all’amore eterosessuale.
Per la prima volta nella storia, la maternità appare staccata dalla coppia in modo volontario e consapevole. Se essere madre, è un desiderio, deve essere un desiderio individuale che non dovrebbe essere subordinato a nulla eccetto, come qualsiasi desiderio, al denaro. La maternità appare ora strettamente legata al consumo. Non solo per tutti gli oggetti di consumo che appaiono legati al bebè e che lo trasformano in un bersaglio di tutti i tipi di pubblicità, ma la maternità sembra essere correlata al potere d'acquisto in un mondo  in cui essere madre si situa più in là e si complica: adozioni, uteri in affitto, costosissimi processi di riproduzione assistita, cliniche, intermediari, agenzie… tutto questo ha aperto quello che giustamente chiamano «mercato riproduttivo».

In questo momento essere una madre, o almeno la madre di più di un bambino,dipende dal potere di acquisto della famiglia. Se in passato avere molti figli era cosa da poveri, ora è il contrario, solo i ricchi possono permetterselo. In ogni caso, questa maternità è ora più rara, più desiderata, più costosa e richiede più sacrificio.
La mia tesi è che i valori dell’amore romantico, chiavi importanti nella configurazione della soggettività femminile, si sono spostati alla maternità romantizzata per, modalità gattopardiana,  continuare a svolgere la stessa funzione.  Dalla coppia uomo – donna siamo passati alla coppia madre-figlio. La cosa importante è preservare la centralità dell’Amore nella vita delle donne e continuare a costruire soggetti (femmina) disposti ad arrendersi all’Amore. Poiché il femminismo ha messo in discussione (giustamente) la consegna delle donne agli uomini, si è prodotto un rinforzo dall’altro lato, molto più incontrastato (per nulla contrastato in verità, perché la messa in discussione dell’amore materno, è un tabù). L’amore materno è ora l’amore femminile per eccellenza, è "la necessità della necessità dell’altro, che deve essere continuamente riconfermata".
Come ho già detto in precedenza, questo tipo di maternità non è del tutto nuova. La diade madre-figlio nasce nel XII secolo, come modello della coppia formata dalla vergine Maria e il bambino; è una coppia che si basta da sola, nella quale il padre non esiste e la madre esiste solo in relazione al figlio. Questa stessa coppia è formulata in modo simile all’attuale, nel XVIII secolo, però in nessuno dei due casi può dirsi che abbia socialmente successo e continua a essere un ideale esemplare che poche madri scelgono e che molte meno possono svolgere.
La situazione attuale in cui, veramente, possiamo dire che molte madri si innamorino dei loro bambini e costruiscono la loro identità intorno a quel rapporto, non è ancora avvenuta; questa identità materna, in tutti i casi, è costruita tra gli stessi membri con i quali si costruisce l’amore romantico. Non era mai successo che i sentimenti espressi e vissuti dalle madri per i loro bambini si riportano a quelli espressi nella coppia. La maternità romantizzata è passata a occupare un posto molto positivo nell'immaginario culturale ed è diventato uno spazio libero da ogni possibilità di critica. Di fronte alla contingenza dell’amore romantico, l’amore materno offre l’enorme vantaggio di essere “scientifico e naturale”. Le madri si innamorano del proprio neonato a causa degli ormoni. Chi avrebbe mai pensato che dopo tanti anni di lotta alla naturalizzazione del sessismo,  c'è questa regressione quasi indiscussa e protetta dalla giustificazione universale, che è il richiamo alla natura. La storia nascosta dell’abbandono dei neonati e dell’infanticidio (massiccio in determinati momenti storici) non ha scoraggiato i sostenitori della determinazione ormonale del comportamento femminile.
La complementarietà tra uomo e donna, che è l’idea di fondo dell’amore romantico, è adesso sostituita dal legame madre-figlio, senza il quale le donne non sono complete. E’ necessario un altro che ci completi e l'amore romantico ci ha abituati abbondantemente al mito della metà della mela sostituito adesso dal neonato o dal figlio/figlia con molti vantaggi rispetto delle coppie di amore. Ad esempio, la incondizionalità. Le femministe hanno denunciato che l’amore di coppia non poteva essere incondizionato ma l'amore materno, tuttavia, ha il vantaggio di poterlo essere. In un mondo privato di certezze e in cui non c’è nulla di duraturo tanto meno l'amore, perché sappiamo che ha una data di scadenza, la maternità fornisce l'illusione di un amore che non ha altro scopo che la vita stessa. Inoltre, di fronte a un amore fortemente messo in discussione, appare un amore indiscusso rivestito delle caratteristiche che prima attribuivamo all’amore romantico: sacrificio, non sottoposto a condizione,durata, complementarietà.
Perché la maternità intensiva è accompagnata dal mandato femminile del sacrificio, necessaria in tutto l'amore che valga la pena. Se non sei disposta a soffrire allora, ami di meno. La possibilità di voler essere una madre e, ciò nonostante, voler scappare dal sacrificio conduce direttamente alla maternità perversa. La vecchia idea che senza dolore non c’è amore, sventola sotto la nuova rivendicazione del parto senza anestesia, dell’accettazione dell’allattamento doloroso, così come la messa a disposizione del neonato 24 ore il giorno. La disponibilità al sacrificio e al dolore sono sempre stati gli ingredienti in amore che caratterizzano le donne e tale disposizione è stata ora trovata nel nuovo amore materno: un fertile terreno.
E’ importante notare che l’amore che si offre a un figlio o a una figlia ha una base etica che l'amore romantico non ha. Il neonato ha bisogno, infatti, che lo amino e lo curino; e questo amore e questa cura è un suo diritto ed è, allo stesso tempo, un obbligo degli adulti. Ma anche se ammettiamo questo, ciò che critichiamo è il passaggio della maternità degli anni ’60 e ’70 che, senza trascurare il benessere dei bambini ha avuto come uno dei suoi obiettivi di “ svezzare” le madri; costruire maternità confortevoli, ugualitarie, che non si trasformassero in maternità legate nuovamente all’etica del sacrificio ma alla libertà. Sebbene la maternità può significare in alcuni casi sacrificarsi, questo sacrificio è finito con il diventare non qualcosa che può accadere, purtroppo, ma un valore in se stesso, senza il quale la maternità perde di significato. L’agire di questa etica del sacrificio significa che cercare la propria -soddisfazione (senza trascurare il bambino), si trasforma in qualcosa di criticabile. Per questo – perché nell’amore materno l’etica del sacrificio è completamente installata, questo amore materno è necessariamente presentato come l'amore puro, senza ambivalenza alcuna. E 'la quintessenza dell'amore-rinuncia, perché, a differenza dell’amore romantico, qui la rinuncia, tutta la rinuncia, sembra essere pienamente giustificata portando più rassegnazione, più sacrificio, maggiore valore sociale e più autostima soggettiva. La madre migliore si crea quanto più dura è la maternità e, viceversa, l'espressione della volontà consapevole di non voler soffrire, per esempio, o di soffrire il meno possibile, di solito è accolta con sospetto dai/dalle professionist* , dagli/dalle espert*, famiglia compresa. Affermare che si vuole vivere una maternità lontana dal sacrificio il più possibile è segno di una maternità almeno dubbia.
Consegna assoluta, rinuncia stessa, etica del sacrificio il dolore incluso, dipendenza reciproca, il bambino diventa amante e marito. L’amore - rinuncia sempre con felicità, aiuta a costruire il suo opposto, la cattiva madre, che è quella che fugge dal sacrificio che si prende cura di se stessa e, pertanto, è egoista. Ed essere egoista è la cosa peggiore che può essere una madre.
E' interessante riflettere su cosa presuppone il preoccuparsi del proprio benessere, qualcosa che noi intendiamo come una rivendicazione del femminismo e della critica all’amore romantico, non sia tuttavia, nemmeno un'opzione quando parliamo di maternità.
Nulla di ciò che ho detto qui, sono mie elucubrazioni e ci sono prove che v'è una forte tendenza sociale, a mostrare la coppia madre/figlio (immaginiamo sempre un maschio), come una coppia romantica. Nella pubblicità, per esempio,sono sempre più frequenti gli annunci nei quali in modo abbastanza chiaro vi è l’equiparazione della coppia madre/figlio, con la coppia romantica. Recentemente abbiamo potuto vedere un annuncio della Neslé in una serie dal titolo "Mamma, benvenuta alla tua nuova vita", in cui chiaramente si parlava del neonato come un fidanzato / marito. In questo annuncio, una voce femminile ripeteva le parole rituali di un matrimonio per celebrare la consegna della madre a questo impegno : "Io ti prendo, figlio mio, come mio amore, io ci sarò ogni volta che hai bisogno di me, il mio amore durerà per sempre ...”. E continuava con una serie di obblighi emotivi e materiali che sembravano una promessa di matrimonio. La pubblicità degli alimenti per l’infanzia o di oggetti per bambini usano in modo permanente le caratteristiche dell'amore romantico per riferirsi alla relazione madre-figlio / figlia.
In sintesi, penso che una parte importante delle caratteristiche dell'amore romantico si sono spostate alla maternità romantizzata , con il vantaggio rispetto a quello che, in questo caso, non c’è spazio per possibili critiche. Sempre più spesso, piuttosto che meno, le caratteristiche che culturalmente definiscono la femminilità e, soprattutto, la femminilità in relazione all'amore romantico, sembrano essersi trasportate nello spazio della maternità con il risultato che, in realtà, le donne sono ancora legate all'Amore con la lettera maiuscola e, inoltre, a un amore legato al sacrificio, all’abnegazione, con la disponibilità e non con l’autonomia che è necessaria in termini di uguaglianza.

(traduzione di Lia Di Peri)