giovedì 21 novembre 2013

A chi appartiene il corpo delle donne?

Amparo Ariño Verdú, dottora in filosofia, presso l'Università di Valencia.









Mi concentrerò sull’alienazione del corpo che subiscono le donne per il solo fatto di essere tali. Sarà quindi una situazione specificamente femminile. Da questo punto di vista, mi domando: a chi appartiene il corpo delle donne? Appartiene a esse come soggetti? Appartiene ai loro partner? Appartiene alle loro famiglie, alla società? Sono esse realmente soggetti e soggetti di diritto o sono solo oggetti e oggetti- per - gli altri?
Da più di un secolo ci sono stati progressi, è innegabile, nella condizione giuridica delle donne in Occidente, anche se con abbastanza ritardi e dal futuro incerto. Eppure sembra, anche se non esplicitamente, che il corpo continui a non appartenere alle donne.
Nel pensiero dominante, la donna è stata identificata con il suo corpo e, quindi, con la corporeità, mercificandola. Essere donna è essere il proprio corpo e corpo sessuato. “ Tota mulier in utero” scrisse Tommaso d’Aquino, il filosofo che cristianizzò Aristotele. Del pensiero aristotelico - tomista (più tomista che aristotelico) la Chiesa cattolica nutre molti dei suoi dogmi e cerca di dare loro una patina di pensiero razionale. E il corpo di cui parla d’Aquino, è semplice «cosa», un mero oggetto. Le cose però non sono persone, non sono soggetti. Le cose non hanno diritti. I diritti delle donne, quindi, anche se sono formalmente riconosciuti, di fatto, non sono rispettati.
Questa concezione della donna come corpo-cosa, oggetto e non soggetto, cosa e non persona, sarebbe la causa ultima della violenza contro le donne. E sarebbe implicita nella giustificazione degli omicidi, stupri e degli abusi delle donne che tanto frequentemente fanno notizia. Ci sono moltissimi fatti che supportano questa concezione della donna come oggetto e non come soggetto, come persona. La verità è che questa concezione della donna, non sempre è esplicita, almeno nella cultura occidentale, nonostante sia presente nel dogma e credenze religiose, compresi nei codici sociali di certe culture. Consideriamo alcune di queste situazioni.
La rappresentazione della donna nella pubblicità
L’oggettivazione della donna nella pubblicità è abbastanza evidente. Utilizza l’immagine del corpo della donna come richiamo pubblicitario. Un'immagine modellata secondo il modello del gusto maschile, del suo desiderio: donna giovane, dai lineamenti aggraziati, a volte, perfetti, che combina snellezza ed esuberanza. Un’immagine potenziata spesso artificialmente con le tecniche del “foto shop”, che è una meta irraggiungibile per la donna reale, ma che cerca di imporle un canone di bellezza. Come le è imposto di avere e mantenere, a qualsiasi costo,
compresa la chirurgia chiamata " estetica ", un aspetto giovane.
Il corpo di una donna che, di fatto, non le appartiene deve essere una cosa malleabile che si adatta l'immagine che le è imposta, l'immagine che dovrebbe avere. E’ l’uomo che definisce come, chi e cosa è una donna: donna è quella che risveglia il desiderio maschio eterosessuale. Come denunciava Simon de Beauvoir nel Secondo Sesso, anche se in forma variabile, questa immagine è legata alla sottomissione, dai minuscoli piedi con le ossa frantumate dell’antica Cina, all’ingrassamento forzato favorito dall’immobilità nell’harem. O l’esagerata e obbligatoria magrezza della cultura occidentale in epoca attuale (e in altre) che ha spinto molte adolescenti e donne all’anoressia. E se anche il canone di bellezza femminile può variare, ciò che non cambia è la sua imposizione. Questo modello favorisce generalmente la limitazione dei movimenti. Così i corsetti metallici per conquistare 40 centimetri di giro vita nelle epoche passate, che accorciavano il respiro o i tacchi a spillo abbinati alla gonna a “tubo” in epoca più recente. Fino alle differenti calzature per bambino e bambina: per il primo, innanzitutto la comodità e robustezza, che assicurano di poter correre, saltare… alle bambine s’impongono l’estetica delicata (vedi ballerine) senza lacci, con il collo del piede scollato, che rendono difficile la corsa e la velocità di movimenti caratteristica dell’infanzia.
La donna è una cosa poiché deve essere oggetto sessuale.
 La donna è l'oggetto del desiderio, la cosa desiderata per il maschio eterosessuale. La desidera per godere sessualmente di lei. Per assicurarsi questo godimento stabilisce un diritto di possesso, il cosiddetto diritto coniugale e lo garantisce con il sostegno dell’istituzione matrimoniale.
L’accesso alla donna come cosa sessualmente desiderata, può anche essere raggiunta dal maschio, tramite le transizioni commerciali, quali la prostituzione. In questa situazione è possibile utilizzare la donna – prostituta come esplicita serva sessuale, come un oggetto comprato o affittato al fine di raggiungere il piacere. La situazione di umiliazione nella quale si trova la donna prostituta, la totale mercificazione del suo corpo, come ubbidiente strumento di piacere e la conseguente disumanizzazione della relazione, non sono estranei al raggiungimento del fine che il cliente/compratore persegue. Come cose, perché disumanizzate le donne, sono vendute e comprate. Si traffica con esse come fosse merce. Si sfruttano economicamente, spesso sono gli altri, di solito gli uomini, chi traggono profitto da questo commercio e i clienti che utilizzano questo servizio non ignorano queste circostanze. La prostituzione però si giustifica e si pretende che sia inevitabile (legislazioni su di essa, a parte), perché le necessità sessuali maschili sono considerate non solo rispettabili ma sacre.
Il corpo delle donne, per antonomasia, è lo strumento utilizzabile e utilizzato per generare nuove vite. Il modo di utilizzare il corpo delle donne, è per eccellenza, la maternità imposta.  E’ il modo tradizionale di sottomissione della donna. Obbligata alla gestazione, a partorire e a creare i figli “ che Dio manda”. Poiché la religione e mi riferisco qui soprattutto ai tre monoteismi, legifera sul ruolo della donna nella procreazione condannando l’uso del contraccettivo, sacralizzando la sottomissione della donna, non solo ai disegni di una presunta divinità, ma a quelli del suo padrone e signore in questo mondo: il marito. Patriarcato su patriarcato. Nella stessa direzione va il divieto del diritto all’interruzione della gravidanza. La donna non ha il diritto di scegliere: il suo corpo non le appartiene.
Come ci ricorda Toni  Martinez (La Marea 12 novembre), l’arcivescovo di Granada, Javier Martinez, che sostiene la pubblicazione del libro “ Sposati e sii sottomessa”, già noto per le sue dichiarazioni contro l’aborto e che è arrivato a sostenere che se una donna abortisce, un uomo può abusare di lei “ l’aborto dà agli uomini, la licenza assoluta, senza limiti, di abusare del corpo della donna”.

A mio avviso, ciò che sta affermando l’arcivescovo è che la donna non è in assoluto padrona del suo corpo. Di modo che se decidesse di interrompere la gravidanza merita di subire gli abusi che vogliano infliggerle gli uomini, affinché capisca che il suo corpo non le appartiene. Così che la partner (fidanzata, moglie, amante compresa), la donna è proprietà del maschio, una tra le tante proprietà. Può esibirla, vantarsene con altri maschi, della sua bellezza il cui uso e godimento è scontato che gli appartiene in modo esclusivo. Ostenta il corpo della “sua” donna e, nel caso, dei gioielli e vestiti costosi con i quali la decora, così come ostenta un’auto costosa o qualunque altra proprietà, che mostra agli altri, come segno di potenza. Perché, in quanto merce, la sua donna possa essere considerata una proprietà aggiuntiva.
Questa concezione della donna come cosa e non come una persona, come un oggetto e non come soggetto potrebbe anche essere la fonte di un atteggiamento cosiddetto “passivo” della società, dove manca una risposta proporzionata, con onorevoli eccezioni, alla gravità dei fatti da parte delle autorità: polizia, giudici. Il trattamento che, a volte, ricevono le donne che denunciano le aggressioni, è vessatorio, diffidente nei confronti della sua testimonianza o si dice che qualcosa avrà fatto la donna, che “giustifica” l’aggressione subita. Non c’è un reale rifiuto sociale dell’aggressore, non è isolato. In molti casi, non è allontanato abbastanza dalla vittima. Mentre in caso di femminicido, si applaude al passaggio della bara e, a volte, si osserva il minuto di silenzio.
E’ proprio in questa concezione della donna come proprietà, che troviamo la vera radice giustificativa della violenza contro la donna, gli abusi, le violazioni, i femminicidi per mano dei partner, degli ex partner, compresi i pretendenti rifiutati.  In altri tempi, luoghi e culture, anche da parte dei padri, fratelli e di qualunque altro maschio, che considera danneggiato il suo ‘onore’ per il comportamento della donna della sua famiglia.
(…) L’esistenza della donna è pericolosa, fa peccare e, se è il caso, fa delinquere l’uomo. La donna, il suo corpo, è quindi, un oggetto pericolosamente peccaminoso. Se attrae il maschio, la colpa è solo sua. Da qui, l’imposizione di nascondere il corpo con indumenti specifici: velo, burqa, capo coperto, “modestia” nel vestire, che è comune alle tre religioni del libro. E non solo. La donna che è stata vittima di una violenza, inclusi i casi nei quali è stata considerata bottino di guerra e violentata dal nemico, è considerata colpevole di causare il disonore della sua famiglia. Può essere condannata a morte, come se avesse commesso adulterio.
Volontari o meno, che siano, se ha  rapporti sessuali fuori dal matrimonio, la donna sta commettendo un reato. Perché, ripeto per l’ennesima volta, il corpo non è suo. Si potrebbe sostenere che queste punizioni e queste situazioni si danno in culture apparentemente distinte dalla nostra, però, in realtà, ciò che subiste è un concetto universale: la donna è oggetto e non soggetto di diritto, per questo, il suo corpo non le appartiene e non le è riconosciuta la libertà di decidere di esso. Non sulla sua sessualità, né sul suo aspetto, né sulle sue azioni.
Mentre scrivevo quest’articolo (14 novembre 2013), in Spagna, sono state uccise dall’inizio dell’anno, sessantadue donne, per crimini di genere.