giovedì 18 settembre 2014

La condizione ideologica del silenzio nella violenza di genere






Oggi non esiste ma non è mai esistito un pronunciamento istituzionale sulla violenza di genere. Le questioni concernenti l’organizzazione della lotta contro la diseguaglianza, le strutture pubbliche idonee a prendere decisioni in questa materia o i significati sociali che potenziano la violenza non si prospettano né si sono mai prospettati come importanti per perseguire la vera eliminazione della violenza di genere.

Wright Mills ha scritto che la mancanza di questioni pubbliche non è dovuta all’assenza dei problemi, ma alla condizione ideologica della sua invisibilità. L’inerzia e il silenzio istituzionale su questo problema sono ciò che sta de-politicizzando questa lotta. E spieghiamo il perché.
L’egemonia sulla definizione su cosa sia politico, su ciò che conta o no, su quali siano le questioni pubbliche urgenti, sulle priorità e su ciò che invece può aspettare, è sempre stata contestata dal movimento femminista sin dalle sue origini. Fu dagli anni ’60, però, che molti movimenti sociali sovversivi cominciarono ad acquistare forza in questa direzione, ampliando i limiti di un presunto pluralismo nel dibattito politico e portando nella sfera del pubblico, i dibattiti sui processi decisionali, dell’imperialismo culturale o i problemi concernenti, i rapporti della vita quotidiana, che fino allora non avevano mai avuto una lettura politica. Discutere su questi problemi, comportò la loro politicizzazione, perché per la prima volta entravano nella sfera della contestazione pubblica, mettendo in discussione implicitamente questo limitato pluralismo, che gestiva la concezione tradizionale di spazio pubblico delle nostre democrazie.
Non è un caso, che  il trionfo dello slogan – durante il decennio degli anni sessanta – fu “il personale è politico”. Grazie a questo slogan, il movimento delle donne portò nella sfera pubblica, molti temi e pratiche che erano sentiti come troppo banali, private o intime, per la discussione o l’azione collettiva. La violenza di genere fu una di quelle. Fino allora una persona maltrattata dal suo partner era una questione privata che doveva rimanere nella sfera intima delle relazioni personali. Non era una questione politica. La sua visibilità aiutò a prendere coscienza del fatto che il “potere” non è qualcosa che si esercita solo a livello macro, ma anche dentro le relazioni di coppia, perché questi rapporti di potere sono espressione di modelli strutturali di diseguaglianza. Era chiaro che bisognava re-significare gli spazi del pubblico e del privato e fare sì che nel privato arrivasse la democrazia.
Per la teoria femminista fu faticoso mostrare che definizioni come “ violenza” dovevano essere contestate da una condizione di predominio maschile. Secondo quanto affermato da Liz Kelly, in uno degli studi di riferimento sulla violenza di genere, pubblicato negli anni ’90, era facile capire perché gli uomini, in difesa dei loro interessi di gruppo e come principali autori di essa, avessero limitato in gran parte, la sua definizione. Si prese coscienza che definire qualcosa è sempre problematico. C’è bisogno di una buona teorizzazione e prova empirica. Occorre, però, come afferma Marta Minow, aver  presente, che le definizioni si costruiscono socialmente, che le categorie non rientrano in modo naturale nel mondo, ma che sono caricate di pregiudizi incartati in norme culturali, in attese e valori sociali.
L’intenso lavoro dalla prospettiva femminista permise di problematizzare le definizioni dominanti e ampliarle in modo più inclusivo. La comprensione della violenza poté essere adattata gradualmente a quella che era la reale esperienza delle donne, individuando un’ampia gamma di comportamenti fisici, verbali, sessuali, emozionali e psicologici, che le donne vivevano come violenza, perché producevano sistematicamente umiliazione e disprezzo, perdita della propria autonomia fisica e mentale e una rottura dello strato più profondamente emotivo che, nei casi più gravi, poteva provocare una totale mancanza di rispetto per se stesse. Tuttavia, le ricerche femministe oggi, devono ancora affrontare le tensioni delle definizioni dominanti come quella, per esempio, di ciò che significhi, essere violentata, e di  quello che molte donne vivono come stupro anche se in silenzio. La prova empirica portata dalla letteratura femminista ha dimostrato che, molte donne rimangono in silenzio, perché prevedono la situazione di mancanza di rispetto o quella di non essere prese sul serio.
Un ambiente che promuova la libera espressione di queste esperienze di abuso è un contesto più democratico, perché aiuta a identificare e nominare questi problemi, perché aiuta a sviluppare un linguaggio normativo che nomini questa ingiustizia. Ci deve essere un contesto politicizzato e consapevole, che davvero metta in discussione le strutture di genere che governano le nostre società.
Oggi, tutto il dibattito sulla diseguaglianza di genere è andata perduto. Non c’è nessun membro del governo che lo sostenga, nessun progetto istituzionale che lo assuma e  che articoli uno schema politico diretto a eliminare le relazioni assi metriche di potere che sono radicate nella diseguaglianza di genere.
Quest’assenza del discorso, tuttavia, funziona ideologicamente, perché la mancata assunzione della violenza di genere è l’implicita assunzione della disparità di genere nell’orizzonte politico. Per questo, mantenendo il silenzio, il governo (i governi) egualmente si schiera. Prima di riformare una qualsivoglia legge sulla violenza di genere – come ha dichiarato di recente la ministra spagnola Ana Mato -  forse è più importante che si cominci ad applicarla.




(traduzione di Lia Di Peri)