sabato 22 ottobre 2011

In nome dei diritti umani

Miserabili e vili assassini al servizio dell'imperialismo. 
Gheddafi vivo sarebbe stato un pericolo per gli invasori e i loro mercenari, molti dei quali membri di Al Qaida, il marchio che l'imperialismo ha utilizzato per perpetrare la strage dell'11 settembre .
E i meschini  che oggi dichiarano che Gheddafi è morto come un ratto,sanno bene invece che è morto da combattente. 
Poteva salvarsi andando in Algeria o accettando l'ospitalità che il Venezuela gli aveva offerto o, più semplicemente, scappare e vivere da ricco. Non l'ha fatto ed è rimasto a combattere per e con il suo popolo. Di questi vigliacchi complici della Nato e dell'impero, che hanno violato tutte le leggi di guerra e tutti diritti umani quale modello di giustizia può venire?
Hasta colonello  Mohammar
 

giovedì 20 ottobre 2011

A Muammar Gheddafi, 7 giugno 1942 - 20 ottobre 2011

da Vincenza Perilli

 Ci è appena giunta notizia dell'uccisione (avvenuta a Sirte, sua città natale) di Muammar Gheddafi. In questi anni non gli abbiamo certo fatto sconti, pur ricordando quello che comunque è stato, ha fatto, ha rappresentato. Ora la sua morte - atto finale di una guerra neocoloniale feroce e ipocrita che un'altra ne ricorda -, così come il compiacimento meschino di chi in tempi utili gli baciava la mano, ci fa vomitare.





Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano

Come sottolinea Nicola Labanca1, è negli elenchi stradali italiani che permane il ricordo – altrove rimosso – delle imprese coloniali dell'Italia unita: una piazza Adua, un corso Tripoli o una via Mogadiscio, sono frequenti nella toponomastica non immemore delle nostre città. Più difficile sembra, invece, trovare qualcuno/a capace di spiegarcene il senso. Ai più sfugge, ad esempio, il legame tra una “via Libia” - che a Bologna costeggia un quartiere familiarmente detto “della Cirenaica”2 – e i ripetuti tentativi di “conquista” di queste terre da parte dell'Italia liberale prima e di quella fascista poi.

Chi ricorda la spietata rappresaglia italiana all'indomani della sconfitta subita a Sciara Sciat (villaggio alle porte di Tripoli) ad opera dei ribelli libici nel 1911, la “caccia all'arabo” che si scatenò tra le vie della capitale con impiccagioni collettive nella centrale Piazza del Pane e deportazioni di massa verso l'Italia che durarono almeno fino al 1916? Qui (nelle prigioni delle Isole Tremiti, di Favignana, di Gaeta, di Ponza, di Ustica...) coloro che non erano morti nella traversata, morirono in gran numero per le condizioni inumane di prigionia, le malattie non curate, il lavoro forzato e i maltrattamenti. A tutt'oggi, scrive Angelo Del Boca, “ci sono famiglie in Libia che vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari”3.

E chi ricorda – ancora –, durante la “riconquista” della Libia negli anni 30, le rappresaglie, le distruzioni sistematiche, le deportazioni di massa di civili (che causarono 60 000 morti nella sola Cirenaica, anche bambini/e), l'impiccagione, tra gli altri, il 16 settembre 1931 – in spregio ad ogni convenzione internazionale – di Omar el Mukhtar, uno dei capi della resistenza locale?

I responsabili di questi ed altri crimini dell'impresa coloniale italiana non hanno mai pagato. E credo non si possa più tollerare che a pagare siano – ancor oggi – le vittime, con un prezzo che si chiama oblio, cancellazione, rimozione. Si chiama mito degli “italiani, brava gente”.

Un mito secondo il quale il colonialismo italiano è stato, a confronto di altri colonialismi coevi, buono, umano e tollerante. Un colonialismo, come scrive efficacemente Paola Tabet, “all'acqua di rose”4. Un mito talmente persistente che neanche i puntuali studi storiografici – a partire dall'opera pioniera di Del Boca alle importanti ricerche degli ultimi decenni di giovani storici e storiche5 – , sono riusciti realmente a scalfire. Più facile, o forse comodo, introiettare un mito che è insieme tranquillizzante e autoassolutorio piuttosto che farsi carico della consapevolezza di questo ingombrante passato che getterebbe, certo, una luce troppo inquietante sul presente6.

Questo mito è frutto di un lungo processo di rimozione, perseguito tra l'altro con tenacia già all'indomani della firma del trattato di pace di Parigi il 10 febbraio 1947 che privava per sempre l'Italia delle colonie, quando lo stato italiano anziché avviare un dibattito sul colonialismo, cercò di occultare e distorcere con ogni mezzo la realtà. Ne è un esempio la pubblicazione in cinquanta volumi, a cura del ministero degli Affari Esteri, dell'opera L'Italia in Africa. Spacciata come una sintesi e un bilancio delle presenza italiana nelle colonie, si rivela invece come una colossale mistificazione atta a esaltare i meriti della colonizzazione italiana.7

Indubbiamente rispetto ad altri colonialismi coevi, il colonialismo italiano presenta alcune “diversità”. Anzitutto l'Italia era stata unificata da appena un ventennio quando – fra il 1882 e il 1885 – fece le sue prime esperienze coloniali, che ebbero la loro fase culminante in anni in cui altre imprese coloniali dovevano già fare i conti con il processo di decolonizzazione. Fu anche un'esperienza circoscritta nel tempo, poco più di 60 anni : dal 1982 in Eritrea, dal 1889 in Somalia, dal 1911 in Libia e dal 1935 in Etiopia e tutte potevano dirsi concluse nel 1943, come anche il “protettorato”in Albania e le colonie nelle Isole Sporadi meridionali (dette impropriamente Isole Egee), storia coloniale tra le più dimenticate8. Inoltre, rispetto ai ben più vasti imperi di altre potenze – si pensi all'Inghilterra o alla Francia – le colonie italiane erano anche circoscritte geograficamente, e più “povere”, quindi economicamente meno vantaggiose. Infine, fin dalle origini, il colonialismo italiano si caratterizzò per un'assoluta ignoranza del territorio e delle popolazioni che vi abitavano considerate barbare, inette e militarmente incapaci, sottovalutando di conseguenza anche le loro capacità di resistenza. Queste le ragioni che portarono, ad esempio, alla celebre sconfitta di Adua, quando l'esercito guidato dall'imperatore Menelik II e dall'imperatrice Taitù Zeetiopia Berean – figura mitica di donna guerriera, che anticipa altre celebri resistenti come Kebedech Seyoum9 – infligge agli italiani quella che è unanimemente considerata la più grande sconfitta mai subita dai colonizzatori “bianchi” in Africa, intaccando per sempre “i reticolati del più vasto campo di concentramento della terra”10 Ma queste diversità non hanno determinato una minore “brutalità” dell'impresa coloniale italiana, come il mito degli italiani brava gente vorrebbe farci credere.

Semmai l'Italia, giunta in ritardo sullo scacchiere coloniale, poteva vantare su una lunga tradizione di “razzismo interno”, che trovò il suo culmine nella cosiddetta “guerra al brigantaggio”, che come ci ricorda Del Boca “ fu anche 'una guerra coloniale', che anticipò, per le inaudite violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle combattute in seguito in Africa. Non fu forse il generale d'armata Enrico Cialdini, luogotenente di re Vittorio Emanuele II a Napoli, a dichiarare: 'Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele'?”11.

Latte e miele che non impedirono certo i massacri e le deportazioni, gli inferni delle carceri eritree – e tra queste la famigerata Nocra – , il lavoro forzato in Somalia – chiamato dai Somali “schiavismo bianco” –, i campi di concentramento in Libia, l'uso massiccio di gas come fosgene e iprite – già vietati dalla Convenzione di Ginevra – per piegare la resistenza etiopica, la strage, tra le altre, di Debrà Libanòs o la feroce rappresaglia che si scatenò per le vie di Addis Abeba in seguito all'attentato, il 19 febbraio 1937 al viceré d'Etiopia maresciallo Rodolfo Graziani12. Senza dimenticare la politica di segregazione razziale e di “difesa del prestigio della razza” imposta dal regime fascista in Africa a partire dal 36, con la proibizione assoluta di rapporti sessuali interrazziali nella cosiddetta colonia per maschi”13. Un aspetto questo essenziale per un'analisi delle articolazioni – anche odierne – del sessismo e del razzismo.

L'immagine della donna “indigena”, esotica, disponibile e voluttuosa era stato uno dei cliché massicciamente diffusi nei primi anni della conquista coloniale italiana – anche attraverso una serie di cartoline che ebbero larga diffusione -, funzionando come una sorta di “richiamo erotico” per i colonizzatori, secondo la sovrapposizione simbolica della conquista sessuale con quella coloniale già collaudata in altri contesti nazionali. Per i primi quarant'anni il cosiddetto madamato viene largamente tollerato mentre la presenza delle donne “bianche” in colonia è generalmente scoraggiata . Ma a partire dalla proclamazione dell'Impero le “unioni miste” (sia nella forma del madamato che del matrimonio) cominceranno ad essere osteggiate fino ad essere proibite del tutto con il decreto dell'aprile 1937 e mentre la prostituzione subisce un'impennata la presenza delle donne “bianche” in colonia – come mogli, anche potenziali dei “cittadini bianchi” - comincia ad essere incoraggiata fortemente. In questo modo si realizza da una parte “l'ufficializzazione della percezione delle donne native come prostitute”14 e dall'altra la celebrazione ulteriore della donna “bianca” come moglie e madre. Del resto queste ultime sono le uniche a poter accedere allo statuto di “donna”, le altre sono “femmine”, come scrive un ex colono italiano nelle sue memorie: “Femmine ce ne sono in colonia, nere esuberanti e generose; mancano le donne, le quali non possono essere che bianche”15

1Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, p. 7

2La Cirenaica, insieme alla Tripolitania, è stata una delle regioni libiche che ha maggiormente subito l'invasione coloniale italiana.

3Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, p. 115.

4Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997, p. VII.

5Impossibile fornire nel contesto di questo breve articolo, una bibliografia esaustiva. Mi limiterò a segnalare alcuni testi di Angelo del Boca, tra i quali i quattro volumi de Gli italiani in Africa orientale editi da Laterza (Dall'unità alla marcia su Roma, 1976; La conquista dell'impero, 1979; La caduta dell'Impero, 1981; Nostalgia delle colonie, 1984) e L'Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Laterza, Bari 1992; i testi di Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1973 e “L'impiego dei gas nella guerra d'Etiopia. 1935-1936”, in Rivista di storia contemporanea, n. 1, 1988, p. 74-109; il volume di Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993. Per quanto riguarda la lettura delle vicende coloniali italiane in una prospettiva di genere, ricordo il saggio di Gabriella Campassi, “Il madamato in A.O: relazioni tra italiani e indigene come forma di aggressione coloniale”, in Miscellanea di storia delle esplorazioni, XII (1987) e i volumi di Giulia Barrera, Dangerous liaisons. Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941, Evanstone (Illinois), Northwestern University 1996 e Barbara Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interraziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998. Vorrei inoltre ricordare, a quasi tre anni dalla morte, Riccardo Bonavita con il suo saggio “Lo sguardo dall'alto. Le forme della razzizzazione nei romanzi coloniali e nella narrativa esotica”, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza, Grafis, Bologna 1994.

6Mi sembra di poter cogliere un sintomo di questa rimozione anche nel linguaggio cosiddetto “critico” o “militante”, dove la tendenza – oramai consolidata – all'uso di metafore o immagini che rinviano al passato per descrivere o contestare il presente, solo in rare eccezioni trova nell'impresa coloniale italiana un utile serbatoio dal quale attingere. I recenti “rastrellamenti” di migranti sui mezzi pubblici in diverse città italiane come anche l'odioso atto di razzismo di un capotreno contro una passeggera migrante, hanno evocato il segregazionismo nell'America razzista del secolo scorso o l'aphartheid sudafricano, ma non la politica di segregazione razziale imposta dall'Italia fascista a partire dal 36 nelle sue colonie africane.

7Cfr. Angelo Del Boca, “Gli studi storici e il colonialismo italiano”, prefazione a Enrico Castelli ( a cura di), Immagini&colonie, Centro documentazione del museo etnografico Tamburo Parlante, Montone 1998, pp. 7-8.

8Nicholas Doumanis (1997), Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell'Egeo, Bologna, Il Mulino, 2003

9A Kebedech Seyoum, splendida combattente durante l'occupazione fascista dell'Etiopia, Gabriella Ghermandi dedica una delle sue “storie” nel bellissimo Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007.

10Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. Dall'unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 701.

11Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, op. cit., p. 57.

12Tre giorni di vera e propria “caccia all'uomo”(uomini, donne, bambini/e) che provocò, a seconda delle fonti, da un minimo di 1400 a un massimo di 30 mila morti.

13Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre Corte, Verona 2007.

14 Barbara Sòrgoni, Parole e corpi, op. cit., p. 244.

15 Ibidem.

 



mercoledì 19 ottobre 2011

L'attivismo del femminismo islamico. Ultima Parte.

 Le altri parti : quiqui e qui

Il caso dell'imam di Fuengirola

da Margot Badran

Continuo in questa descrizione dell'esperienza spagnola commentando un incidente che ha richiamato l'attenzione,tanto al livello locale che globale, relativo alla violenza di genere nel nome dell'Islam  e dei suoi derivati: Chi ha l'autorità e l'autenticita? o in altre parole, quale Islam  e in quale contesto politico  e sociale?
Questi temi sono al centro della preoccupazione femminista islamica transnazionale.
Prima di continuare, vorrei accennare brevemente agli sforzi delle femministe laiche e islamiche per lottare contro la violenza di genere. Nel sud del Mediterraneo, la egiziana Nawal al-Saadawi, medico e femminista, scrisse nel 1972 un libro intitolato al-wa al-Jins mar'a ( la donna e il genere) che creò un grande scandalo e le costò la perdita del lavoro. l'autora affronta la questione della violenza di genere nell'ambito della famiglia,con particolare attenzione ai casi che aveva seguito come medico. Al Saadawi afferma categoricamente in questo libro che l'islam si oppone a questa violenza, ma che tuttavia non fornisce nessun argomento religioso specifico che condanni questa pratica 28.
Tre decenni più tardi, le teoriche del femminismo islamico, specialmente Riffat Hassan, Amina Wadud e Asma Barlas, insieme ad altre hanno fornito gli argomenti mediante il loro tafsir del Corano. Concentrandosi sulla violenza di genere di tutti i giorni,la violenza domestica, queste autore esaminano gli stessi versi che gli uomini hanno utilizzato per giustificare il maltrattamento della moglie.Come previsto arrivarono ad una conclusione completamente opposta.
L'organizzazione malese Sisters in Islam ha portato questo messaggio  ad un pubblico più vasto attraverso un libro scritto in modo semplice e facile da capire intitolato  E' permesso nell'Islam colpire la moglie? 29. L'episodio accaduto in Spagna ha portato alla luce  una serie di questioni e la conseguente opposizione, quando Mohamed Kamal Mustafa pubblicò il libro La donna nell'Islam, dove nel capitolo " Questioni dubbiose" afferma che picchiare  la moglie è consentito nel Corano 30. Questa affermazione nel suo lobro che ha venduto tremila copie, causò una risposta da diversi settori, incluse le organizzazioni   mussulmane An-Nisá, l' Asociación Cultural Inshal-lâh e l' Asociación Baraka. La Federazione Spagnola dell'Entità Religiose Islamiche  (FEERI) gli chiese una correzione, che egli rifiutò sostenendo che era una delle poche persone in Spagna qualificate per elaborare una fatwa o pronunciamenti religiosi ( Mustafa è docente in Studi Religiosi presso l'Università di al-Azhar ). Inoltre ha anche accusato di eresia chiunque lo criticasse.
Vaie organizzazioni mussulmane  e di difesa dei diritti umani portarono il caso fino in tribunale, accusandolo di incitare alla violenza di genere. A sua difesa l'imam  dichiarò che aveva agito in base alla sua religione e che il Corano permette di picchiare la moglie. Egli aveva semplicemente trascritto questo sacro permesso. Nella sua dichiarazione ha cercato di apparire affabile con la donna,assicurando che raccomandava che bisogna picchiarla dolcemente e come mezzo di disciplina, in modo che la donna sia obbedienete al marito.

Il tribunale  ha chiesto di chiarire la posizione dell'Islam in questa materia. I testimoni, tra le quali  Khadija Candela, presidente di An-Nisa, Mariam Cabezas, presidente di Inshal-lâh e Medhi Inshala Flores, segretario della FEERI, portarono solidi argomenti contro l'approvazione islamica della violenza domestica basandosi sulle  loro letture del Corano e hadith (detti del Profeta Muhammad). Il manifesto redatto alla terza conferenza dei musulmani, svoltosi a Cordoba nel 2002, che garantiva  che gli abusi fisici e psicologici erano stati proibiti dall'Islam, è stato uno dei documenti depositati presso il tribunale. Era chiaro che c'era un altro modo, ben documentato, per capire l'Islam e la sua posizione in materia. Il giudice concluse che Mustafa Kamal aveva fornito  la sua opinione personale e che non si trattava di  una posizione conclusiva dell'Islam, né  della sua  dottrina, come aveva assicurato l'accusato. Sulla base del codice penale e sull'articolo 15 della Costituzione, che vieta trattamenti inumani e degradanti, l'imam fu condannato.

Per i mussulmani progressisti, il giudizio è stato considerato una vittoria per la giustizia di genere e i diritti umani. L'incidente è anche servito perché molti spagnoli ribadiscono la loro convinzione che l'Islam sia una religione maschilista e ha tirato fuori antiche paure e stereotipi e considerevoli umiliazioni per l'islam e i mussulmani. La realtà del femminismo islamico è molto difficle da accettare per la maggior parte delle occidentali, tra queste le cosiddette liberali,così come per i mussulmani conservatori,quantunque ovviamente, differiscano nei motivi.
Questo caso ha evidenziato una serie di elementi critici. Oppone l'interpretazione della religione ( attraverso la lettura del Corano, l'hadith e il fiqh o giurisprudenza) ad una dottrina chiara e indiscutibile. Ha anche causato una ri-articolazione dell'interpretazione elaborata in forma lucida dell'esegesi del femminismo islamico come Barlas e Wadud, che dimostrano che il Corano non permette la violenza fisica,né psichica nei confronti di qualsiasi essere umano. La loro interpretazione rileva che i più alti principi dell'uguaglianza e dignità di ogni essere umano scritti nel Corano prevalgono su alcuni passaggi che potrebbero suggerire il contrario. Le tre religioni abramiche possono essere lette in maniera da giustificare il patriarcato o, al contrario, in modo egualitario, come hanno dimostrato le teologie della liberazione cristiana ed ebrea.
Se l'Islam deve rispondere a un tempo e luogo particolare,come le altre religioni,mentre deve restare coerente con i suoi obiettivi,deve essere letto in modo che abbia senso nel contesto sociale del momento. Molte pratiche, comuni nelle società patriarcali sono oggi intollerabili, molte delle quali vietate dalla legge.Il verdetto nel caso dell'imam di Fuengirola mostra come un'interpretazione illuminata dell'islam,insieme alla legge spagnola,possono fornire giustizia  e prevenire la violenza di genere.
La questione dell'autoritità è diventata l'epicentro. Mustafa aveva citato le sue credenziali dell'Università di al- Azhar e il suo status di 'alim ( singolare di ulema) o di esperto religioso con autorità.Aveva affermato che era una delle poche persone nel paese autorizzato a parlare di Islam. Ma nell'Islam non esiste un clero istituzionalizzato e tutti i credenti sono invitati attraverso la ijtihad o sforzo intellettuale a leggere il Corano e arrivare a capirlo.E' stato grazie a questo disconoscimento dell'autorità dell'imam che altri mussulmani hanno testimoniato nel processo.
Come già accennato,negli ultimi decenni sono sorte nel mondo mussulmano persone che non sono specialiste in scienze religiose, ma che provengono da varie discipline ( scienze sociali,medicina, ingegneria, scienze naturali...) che sono riuscite ad interpretare con cura il Corano  e più fonti religiose i cui risultati sono diventati autorità accettate. Alcune di queste persone, uomini e donne,hanno anche ricevuto un'istruzione di più alto livello nelle scienze religiose. Nel paese di Mustafa, l'Egitto, le donne sono professore di scienze religiose all'Università di al-Azhar, la stessa istituzione che dato il dottorato alimam di Fuengirola.
L'apologia al maltrattamento delle donne dovrebbe essere letto nel contesto della lettura patriarcale dell'Islam. Se un marito picchia la moglie è per sottometterla alla sua autorità. Come dice il Corano - entrambi i coniugi - chiamati zawj o partner sono amici e potettori reciproci. In Marocco, uno dei paesi d'origine della maggior parte dei migranti in Spagna, il Codice Penale (Mudawwana) basato sulla sharia fu riformato nel 2004 per assicurare che entrambi i coniugi fossero egualmente capifamiglia.. Ampliò anche le possibilità della donna di divorziare (così come è stato fatto nel 2002 in Egitto).
Se una moglie è "testarda" probabilmente riguarda un problema nella coppia. Nel Corano e nelle leggi fondate su di esso, applicabili nel Mediterraneo meridionale è possibile che la moglie possa chiedere di annullare il matrimonio. Che un marito forzi l'obbedienza della moglie mediante violenza o con  la minaccia di abusarla, sfida i codici penali e quelli islamici e le letture della sharia che le supportano.
Le leggi marocchine basate sulle letture dell'islam, per esempio, si allontanano dal punto di vista di Mustafa. Tuttavia è vero che continuamente nascono pronunciamenti a favore del maltrattamento della moglie in nome dell'Islam, fatti normalmente da ulema conservatori dei paesi a maggioranza mussulmana e che circolano nei mezzi di comunicazione mondiali. Tra questi si trova Yusuf al-Qaradawi (anch'egli originario dell'Egitto ed istruito ad al-Azhar). Fondatore del Consiglio europeo per la Fatwa e l'Indagine, con sede a Dublino,attualmente residente nel Qatar. Le interpretazioni di al-Qaradawi sono promosse attraverso il suo sito web Islamonline e nel suo libro The lawful and the prohibited: The future civilization, pubblicato nel 1984 e tuttavia ancora frequentemente citato.
Questo tipo di opinioni sono state perpetuate da Mustafa nel suo libro pubblicato in Spagna, che a loro volta, sono le opinioni della maggioranza conservatrice delle società mussulmane, sia nei loro luoghi di origine,sia nei paesi dove sono emigrati. Il femminismo islamico, distrugge questa struttura, senza denigrare l'islam.
Pertanto considero i suoi principi e la loro attuazione il percorso che devono seguire le mussulmane.
Abdennur Prado rileva che il caso dell'imam di Fuengirola ha segnato una svolta nel femminismo islamico in Spagna. I mussulmani sono stati capaci di fare un passo avanti ed affermare la loro posizione aperta ed inequivocabile su ciò che pensavano circa la violenza contro la donna in nome dell'Islam. Le donne mussulmane non hanno nulla da perdere se rendono pubblica la loro posizione. Ma gli uomini mussulmani, che continuano ancorati alla cultura patriarcale, se la rifiutano, devono adottare una ferma posizione.

Conclusioni

Nella considerazione di come il femminismo islamico contribuirà alla creazione di una cultura nel nuovo Mediterraneo, mi sono concentrata sulla Spagna, dato che ha ospitato il Congresso Internazionale del Femminismo Islamico ed è un posto dove il femminismo cresce tra le nuove mussulmane, che in passato fu il centro di una civilizzazione islamica brillante dove fiorìil pluralismo culturale.
Esistono due forme di islam he concorrono in Spagna: la patriarcale conservatrice, rappresentata per esempiodall'imam di Fuengirola; un islam progressista introdotto da alcuni dei "nuovi" mussulmani.
A sua volta,ciascuna di queste correnti si è rafforzata all'esterno. Abbiamo visto come la promozione di un pensiero inaccettabile, che legittima la violenza contro la donnanel nome dell'islam viene sempre più contrastato con successo da un islam illuminato, promosso soprattutto dalle donne, insieme all'apparato legale dello Stato. L'Islam e la libertà religiosa devono essere rispettati, ma non gli atteggiamenti inaccettabili in nome di questa.
Inoltre il processo all'imam ha messo in discussione gli stereotipi sui mussulmani, quando è stato dimostrato che i principi dell'Islam difendono l'uguaglianza di genere - e non permette il maltrattamento delle donne, un fatto che viene spesso identificato con l'islam nella sua percezione negativa. Attraverso l'esposizione degli ideali islamici e la lotta contro la sua distorsione,l'islam nei paesi del nord del Mediterraneo potrà svolgere un ruolo nella c reazione di una nuova cultura molto più pluralista.
Utilizzando l'esempio di unico paese, mi chiedo come il femminismo islamico contribuirà a creare una cultura pan-mediterranea. Nel nord l'esperienza spagnola ci dà una via. Considero che questa versione dell'islam sia la via perseguibile verso la civile convivenza dei mussulmani come cittadini nei nuovi paesi, che permette di godere della loro libertà religiosa nel contesto del loro nuovo ambiente ( senza nascondere i problemi specifici di ciascun luogo). I mussulmani convertiti del nord Mediterraneo sono in una posizione particolare per aiutare a costruire questi ponti,come stanno già succedendo tra alcuni mussulmani ed altri,mentre che progettano e vivono un islam coerente per entrambi.
Nel sud, il femminismo islamico (insieme a quello secolare) vive in un contesto di regimi autoritari e repressivi e in società dove l'islamismo patriarcale guadagna terreno politico. Tuttavia, poco a poco contibuisce a geneare una società più democratica ed egualitaria.Cio si riflette in particolar modo sulle riforme del diritto di famiglia basato sulla sharia, così come sull'ingresso delle donne nelle professioni religiose di alto livello, dove si possono creare nuovi modi di comprensione dell'Islam.
L'islam del Mediterraneo consiste in maggioranza di comunità tradizionali nel sud e di nuove minoranze nel nord che influenzano il modo di essere mussulmano, il modo e il percorso del cambiamento.
Mediante lo scambio del pensiero femminista islamico e delle lezioni apprese dall'attivismo, si sta creando un nuovo islam su entrambe le sponde, a sua volta parti del nuovo Mediterraneo.

Note:


(traduzione di Lia Anita Di Peri Silviano)




martedì 18 ottobre 2011

Guatemala, il femminicidio taciuto

Più di centomila donne sono state violentate durante i 36 anni di conflitto in Guatemala. Quelle aggressioni hanno segnato un presente nel quale la violenza di genere si è naturalizzata.

 Il Guatemala continua ad essere un territorio ostile per una donna: 685 morte nel 2010; Centoventi solamente quest'anno.
I dati delle violenze e torture superano qualunque altro angolo del Sud America. Anche la stessa Cidad Juarez. Questa statistica è una sequenza del periodo più nero del conflitto vissuto da questo paese per trentasei anni (1960 - 1996),quando più di centomila donne furono violentate e torturate in seguito al programma di sterminio dell'etnia maya.
Tutto ciò ha naturalizzato una cultura dell'impunità della violenza contro la donna, per la quale c'è solamente l'1% di possibilità che il suo caso riceva giustizia. In questo contesto, una causa istruita dalla Corte nazionale spagnola è diventata l'unica possibilità di cambiare il destino delle donne guatemalteche.

La guerra interna tra il Governo e la guerriglia ha causato più di 200.000 morti in gran parte indigene di origine Maya. Lo stupro, la mutilazione, la schiavitù sessuale, il feticidio ( l'uccisione dei feti) sono stati usati come mezzi per sterminare le comunità maya: distruggere la donna è stato lo strumento per annientare il popolo.
Un piano  organizzato perfettamente, per il quale l'esercito fu accuratamente addestrato, secondo i dettagliati rapporti  della Commissione per il Chiarimento Storico del Guatemala.
Una di queste vittime è stata Tersa Sic: " Quando incontrai i soldati mi presero con la forza, mi portarono vicino ad un fiume e mi violentarono. Erano più di cinquanta. Quel giorno sono state violentate  più donne del villaggio. Hanno bruciato tutto.Mi hanno legata  e sono riuscita a salvarmi grazie all'aiuto di mia figlia di cinque anni. Cercai aiuto. Avevo fame e paura, però nessuno ci trovava".
La Corte Nazionale spagnola dichiarò ammissibile nel 1999, il reclamo presentato dalla Fondazione Rigoberta Menchu, nel quale si accusava per la prima volta,l'ex capo di Stato Rios Montt e altri sette ufficiali, di terrorismo,genocidio e uso sitematico della tortura.
Cinque anni dopo,la Corte emana un atto di accusa nei confronti di otto generali, ma le autorità guatemalteche rifiutarono la loro estradizione. Per le autorità, gli stupri di massa avvenuti durante il conflitto erano da considerarsi " semplici danni collaterali".

"Qualche giorno dopo - continua raccontare Teresa Sic -  mi portarono con la forza al distaccamento militare di El Chol,dove mi violentarono tantissimi soldati, per quindici giorni di fila, dove mi lasciavano dormire soltanto per brevissimo tempo. (...) Ci hanno dato da bere,sangue di toro e carne cruda da mangiare".
Nel dipartimento di Quiché, al nord della capitale del Guatemala,i verdi campi di semina e i suoi colorati mercati nascondono uno di macabri segreti della storia del paese. Questa è la zona dove la violenza durante il conflitto fu estrema soprattutto negli anni Ottanta. Le donne sopravvissute al genocidio hanno deciso di rompere il silenzio, guardare in faccia il governo e accusare i colpevoli. " Abbiamo bisogno di chiarire i fatti -dice Feliciana  - e che lo Stato riconosca la verità, questo è il mio più grande desiderio. Siamo senza parole, la violenza sessuale durante il conflitto armato sembra che non sia esistita".
Le donne parlano del rifiuto che devono affrontare nelle loro comunità, per dire la verità. " Ci additano, ci insultano,fino a ridere di noi coloro che ci hanno violentate - afferma Maria Castro che non riesce a evitare di crollare, quando racconta che,dopo la sua testimonianza davanti all'Alta Corte, nel 2008, suo figlio fu assassinato.

Patricia Yoj, un'avvocata di etnia maya che lavora alle denunce, dichiara che " il rappresentante del Programma Nazionale di Risarcimento ( piano statale che si occupa della riparazione alle vittime del conflitto) disse che non credeva agli stupri e questo è stato pubblicato nei media. E' umiliante"

Il rifiuto da perte dei loro mariti è la cosa più difficile per queste donne che hanno sofferto le peggiori torture. Maria Castro non vuole ricordare, ma sa che farlo può salvare molte vite: " I soldati mi tesero un'imboscata, presero pure mia figlia, lei aveva paura, piangeva urlava, ma i soldati spararono  al mio carro e mi buttarono giù. Ricordo che erano tre coloro che mi violentarono, ma non so in quanti lo fecero  perché ci fu un momento nel quale sono svenuta. Quando mi svegliai li vidi raccogliere le  loro armi in fretta e andare verso un altro posto. Mia figlia mi ha aiutata portando il fratellino, però piangeva molto, aveva visto tutto". Il suo racconto si interrompe, i suoi occhi si riempiono di lacrime, quando riprende a raccontare ciò che successe dopo, il rifiuto del marito che le diceva che era rimasta viva perché aveva permesso ai soldati di abusarla.

Maria Toj non si separa dalla nipote:è il suo tesoro più prezioso, è l'unica che la tiene in vita. Sua nipote e la sua lotta affinché le riconoscano ciò che ha subito  : " hanno torturato me e mio figlio. Mi hanno bruciato tutto,mi hanno lasciata senza niente, solamente con mio marito morto e il mio dolore". I criminali vagano  soddisfatti per  le strade, compreso il convivere nello stesso villaggio e la cosa peggiore è che le situazioni di violenza si susseguono ancora tutti i giorni. Maria Toj racconta come una settimana fa " ad una donna le tagliarono i seni, la torturarono, la violentarono e dopo la bruciarono viva, proprio qui accanto".

La Spagna darà voce a queste donne.

Il giudice Pedraz ha ammesso l'estensione del reclamo del 1999 nel quale viene contemplato  come crimine internazionale, la violenza di genere in Guatemala durante il conflitto armato. L'estensione presentata dalle ONG Women's Link attraverso l'avvocata Almudena Bernabeu, l'unica donna spagnola che lavora sui casi di Giustizia Universale presso l'Alta Corte  e negli Stati Uniti (nel Centro di Giustizia e Responsabilità)include per la prima volta l'orrore al quale furono sottoposte queste donne.
Perito della causa sarà Patricia Sellers, la prima donna che ottenne di dichiarare lo stupro come arma di guerra nei tribunali internazionali speciali dell'ex Jugoslavia e Ruanda.
" Quando si viola un essere umano lo si trasforma in un morto vivente, le si ruba la sua preziosa intimità e si uccide il suo futuro. Se si vuole annientare un popolo questo è il modo migliore per farlo. La tortura sessuale è la più distruttiva delle armi", ha dichiarato Maria Sellers.

Questo processo - spiega Almudena Bernabeu - aprirà un dibattito, perché la mancanza di giustizia è ciò che fa aumentare la violenza di genere.

Paloma Soria l'avvocata dell'Ong, Women's Link, afferma che " la società guatemalteca equipara la violenza sessuale e la tortura alle donne al furto di bestiame, all'incendio del campo di grano. E' necessario cambiare ciò e che le donne non siano più invisibili di fronte alla società"


(traduzione di Anita Lia Di Peri Silviano)

Link: 

Genocidio in Guatemala, ammessi i crimini di genere



Maria Toj, vittima e testimone delle aggressioni con la nipote






domenica 16 ottobre 2011

Cinquant'anni fa, il massacro dei lavoratori algerini.

Il 17 ottobre del 1961, a Parigi, mentre proseguiva la guerra in Algeria,centinaia di lavoratori algerini furono massacrati dalla polizia francese su ordine del prefetto Maurice Papon, al quale il governo aveva dato carta bianca per agire contro la manifestazione algerina prevista per quel giorno.

Dodici giorni prima, il prefetto di polizia aveva vietato agli algerini di circolare per le strade di Parigi e nella provincia parigina dalle 20,30 alle 5,30 del mattino e ordinato che i locali che vendevano bibite dovevano chiudere alle 19,00. Aveva anche proibito di uscire in gruppo, anche piccolo,ma soltanto uno alla volta.
Per rispondere a questo coprifuoco l'FLN, indisse una manifestazione pacifica a Parigi per il 17 ottobre. Alle porte di Parigi, all'arrivo degli autobus dalla periferia,i poliziotti erano pronti a riceverli. Gli algerini furono picchiati selvaggiamente con i calci dei fucili e manganellati in testa, sui denti, sugli occhi, sul ventre. Ovunque i manifestanti si concentravano per sfilare, senza un'arma, né bastoni i poliziotti li attendevano per colpirli selvaggiamente, molestarli  e aprire il fuoco sui gruppi che si andavano via via formando. In una notte, più di diecimila algerini furono arrestati, ammassati nei furgoni della polizia e visto che non erano sufficienti, negli autobus requisiti alla Rete municipale come diciannove anni prima, per la retata del Velodromo  d'inverno di sinistra memoria.
Nel Palazzo dello Sport, nel  Parc des Expositions, nello stadio Coubertin,a Vicennes,i lavoratori algerini furono ricoverati per diversi giorni in spaventose condizioni igienico- sanitarie, rmanendo sempre bersaglio della  violenza della polizia.
Alcuni furono giustiziati, strangolati, impiccati nei boschi parigini, altri non sopravvissero alle ferite e nei giorni seguenti, decine di cadaveri furono trovati nella Senna alcuni con le mani e i piedi legati.
Il governo il giorno dopo dava un bilancio ufficiale di due morti tra i manifestanti e di due feriti  da arma da fuoco tra le forze dell'ordine!
Non si sa con esattezza quanto   siano stati i lavoratori algerini brutalmente assassinati, certamente più di duecento.
Nell'autunno del 1961, la guerra d'indipendenza durava già da sette anni, da quando il primo novembre 1954,i nazionalisti algerini scatenarono la lotta armata contro il colonialismo francese. La guerra aveva già causato centinaia di migliaia di vittime sul fronte algerino. Ma già nel mese di ottobre del '61 i due campi sapevano che l'indipendenza algerina era soltanto una questione di mesi. Le negoziazioni ufficiali erano state aperte tra il governo francese e  quello provvisorio della Repubblica algerina ( GPRA)

Il massacro occultato.


La guerra coloniale e le sue atrocità tuttavia continuavano. Il governo francese voleva restare in una posizione di forza per proteggere gli interessi  dei suoi capitalisti nella futura Algeria indipendente. L'FLN dal canto suo doveva dimostrare di essere capace di molbilitare gli algerini,anche in Francia e questo fu uno degli obiettivi della manifestazione del 17 ottobre. La guerra fece irruzione in  Francia con la brutale repressione della polizia di Papon.
Centocinquantamila lavoratori algerini vivevano a Parigi e dintorni, per lo più uomini le cui famiglie erano in Algeria. Vivevano in baracche, molti in una sola stanza, spesso isolati dalla popolazione e dai lavoratori francesi.
(...)
Dopo il 17 ottobre, l'FLN invitò la sinistra francese ad organizzare il 1° novembre, una manifestazione di protesta contro la repressione ed esigere la fine della guerra. Nessuno rispose. Si dovette aspettare l'8 febbraio 1962 per vedere convocata una manifestazione, in risposta all'attentato dell'OAS, dove la sinistra dovette affrontare lo scoppio della violenza della polizia, che causò otto morti nella metrò di Charonne.
Cinquant'anni dopo, i crimini della polizia francese di quel 17 ottobre  sono tuttora occultati dal silenzio dello Stato.
E' necessario che non siano dimenticati.

Un gruppo di associazioni e di partiti politici ha convocato una manifestazione per ricordare quel 17 ottobre  e chiedere " che le più alte autorità della Repubblica riconoscano il massacro commesso dalla polizia parigina il 17 ottobre del 1961  e nei giorni seguenti, come crimine di Stato.

Lutte ouvrière appoggia questa manifestazione.

Lutte ouvriere

(traduzione di Lia Anita Di Peri Silviano)