martedì 31 gennaio 2017

Loca del coño * e musulmana





Non ho mai amato le etichette perché limitano i miei sguardi.
Il linguaggio ha molta carica politica che una semplice parola è sufficiente per castrare un sano dialogo, fondamentalmente perché una delle parti ha già predefinito nella sua mente un'idea monolitica che non sempre corrisponde alla definizione che l'altra persona ha di se stessa. Dire “ sono musulmana” può essere una prigionia del pensiero, perché parte da una idea costruita dalla colonialità. Dedico, quindi, questa mia prima pubblicazione alla mia presentazione.
Sono una pazza per la fica e di condizione musulmana (sì, ho scritto condizione e non identità).
Mi piace iniziare la mia presentazione dicendo che “sono una eusko-mora*, sovversiva, anarco-femminista, islamica”. Sono musulmana per convinzione, nata in una famiglia, "cattolica romana".
Con orgoglio mi definisco figlia dell’emigrazione galiziana a Parigi, nata in un momento storico in cui questo paese chiamato Spagna era sommerso in un processo privo di libertà e di poco pane per sfamare tante bocche affamate. Mi piace ricordarlo, perché penso sia importante non dimenticare la nostra memoria storica e per comprendere che le migrazioni sono parte della nostra tradizione. E’ bene che assumiamo che come noi siamo andati alla ricerca di prosperità e sicurezza, altre persone fanno lo stesso adesso che dichiarano che siamo una democrazia sviluppata.
Sono stata educata sotto i parametri binari, dove la eteronormatività era "normale". Ho sviluppato durante la adolescenza una evidente contraddizione sociale volendo veder realizzato il mio sogno di “essere un bambino”, non tanto per desiderio di identità ma per l’ansia di godere dei privilegi che a essi erano riconosciuti.
A quattro anni presi coscienza dei loro privilegi, quando ho desiderato possedere la macchina rossa a pedali, che ammiravo ogni giorno nella vetrina del negozio di giocattoli mentre andavo nel parco. La risposta era sempre la stessa: "Le macchine sono per i maschietti."
E’ così che è cominciato il mio desiderio di essere un bambino per possedere la macchina rossa, giocare a calcio, a rugby o, anche, non dovere indossare gli scomodi vestiti che mi impedivano di giocare in libertà. Anche se nonostante ciò finivano per essere usati come paracadute, mentre tiravo la cima di un albero, slogandomi anche qualche caviglia. Volevo essere un bambino per potermi sedere come più mi piaceva, correre e urlare quanto volessi, giocare alla Playmobil o avere la mia collezione di Transformer.
A occhi alieni è ciò che la nostra società ha comunemente descritto come un maschiaccio.
Anche se sono nata all'estero, dopo la morte di Francisco Franco, dovetti ritornare e adattarmi alla nuova realtà.
 Sono passata dal vivere in uno Stato laico a uno a-confessionale, con chiari favoritismi verso la Chiesa cattolica, un fatto che continua da quattro decenni dopo la rottura di un monotelismo religioso imposto con la forza nel corso degli ultimi cinque secoli, tranne nelle due repubbliche.
A sei anni ho preso coscienza del mio ateismo, quando ho detto nell’ora di religione che se Gesù era figlio di Dio e, quindi, Dio ero io, essendo allora figlia di Dio, potevo essere benissimo io Dio.
Ho ancora nei miei occhi lo stupore della insegnante, una affettuosa suora, che in quel momento, mostrò tutta la sua rabbia di fronte a una simile dichiarazione. Trentacinque anni dopo, sostengo ancora la stessa idea.
Io non credo alla costruzione che la nostra società fa di Dio né credo nel suo concetto di religioni e neppure nelle strutture verticali in cui le donne sono state espulse dalla leadership spirituale. Tendo a rifiutare le definizioni che, terze persone, fuori dall’Islam, fanno sulla mia condizione di musulmana come se fosse verità inconfutabile, razionale e da libera postura colonialista. Perché condizione? Perché, come ho capito la condizione musulmana è lo stato naturale degli esseri viventi, non solo degli animali umani.
Dal mio modo di intenderlo, l’Islam, non è una religione né monoteista né Allah è chiamato Dio. Non mi identifico con il concetto di “credente”, così come lo vivo, non c'è scelta di credere o non credere in Allah. Allah lo sento o non lo sento. Sì, lo so. Non ha nulla a che fare con la costruzione di parole che ha limitato il pensiero della nostra società. Forse, perché, durante questi ultimi cinque secoli, chi si è appropriato del diritto all'interpretazione e alla epistemologia dell'Islam, sono stati uomini bianchi eterosessuali non musulmani.
Per questo credo in un femminismo decoloniale e alla necessità che noi, le protagoniste, recuperiamo il nostro legittimo diritto di definire noi stesse, senza interferenze, senza aggiunte né cariche soggettive che arrivino da una prospettiva teologica antropocentrica, lontana dalla cosmologia islamica.
A noi tocca decostruire, decolonizzare lo sguardo e imparare a fare della diversità un potente strumento di sinergie per porre fine a questa piaga violenta chiamato sistema patriarcale.
Ti unisci alla mia jihad di genere?
P.S. Essere musulmana non è sinonimo di araba. Quando mi inviti a casa tua, non è necessario che mi prepari un cus-cus, per farmi contenta, perché se anche mi piace, continuo a decantare una frittata di patate o di verdure bollite. Non è neppure necessario che mi offri un tè alla menta, che è molto ricco ma preferisco un succo naturale di frutta di stagione.
Per quanto riguarda la musica, mi rendo conto che si desideri deliziarmi con ritmi del Maghreb ma, a essere sincera, mi piace di più il rock e il metal.