Oggi non esiste ma non è mai esistito un pronunciamento istituzionale
sulla violenza di genere. Le questioni concernenti l’organizzazione della lotta
contro la diseguaglianza, le strutture pubbliche idonee a prendere decisioni in
questa materia o i significati sociali che potenziano la violenza non si
prospettano né si sono mai prospettati come importanti per perseguire la vera eliminazione
della violenza di genere.
Wright Mills ha scritto che la mancanza di questioni
pubbliche non è dovuta all’assenza dei problemi, ma alla condizione ideologica
della sua invisibilità. L’inerzia e il silenzio istituzionale su questo
problema sono ciò che sta de-politicizzando questa lotta. E spieghiamo il
perché.
L’egemonia sulla definizione su cosa sia politico, su
ciò che conta o no, su quali siano le questioni pubbliche urgenti, sulle priorità
e su ciò che invece può aspettare, è sempre stata contestata dal movimento
femminista sin dalle sue origini. Fu dagli anni ’60, però, che molti movimenti
sociali sovversivi cominciarono ad acquistare forza in questa direzione,
ampliando i limiti di un presunto pluralismo nel dibattito politico e portando nella
sfera del pubblico, i dibattiti sui processi decisionali, dell’imperialismo
culturale o i problemi concernenti, i rapporti della vita quotidiana, che fino allora
non avevano mai avuto una lettura politica. Discutere su questi problemi,
comportò la loro politicizzazione, perché per la prima volta entravano nella
sfera della contestazione pubblica, mettendo in discussione implicitamente
questo limitato pluralismo, che gestiva la concezione tradizionale di spazio
pubblico delle nostre democrazie.
Non è un caso, che il trionfo dello slogan – durante il decennio
degli anni sessanta – fu “il personale è politico”. Grazie a questo slogan, il
movimento delle donne portò nella sfera pubblica, molti temi e pratiche che
erano sentiti come troppo banali, private o intime, per la discussione o l’azione
collettiva. La violenza di genere fu una di quelle. Fino allora una persona
maltrattata dal suo partner era una questione privata che doveva rimanere nella
sfera intima delle relazioni personali. Non era una questione politica. La sua
visibilità aiutò a prendere coscienza del fatto che il “potere” non è qualcosa
che si esercita solo a livello macro, ma anche dentro le relazioni di coppia,
perché questi rapporti di potere sono espressione di modelli strutturali di
diseguaglianza. Era chiaro che bisognava re-significare gli spazi del pubblico
e del privato e fare sì che nel privato arrivasse la democrazia.
Per la teoria femminista fu faticoso mostrare che
definizioni come “ violenza” dovevano essere contestate da una condizione di
predominio maschile. Secondo quanto affermato da Liz Kelly, in uno degli studi
di riferimento sulla violenza di genere, pubblicato negli anni ’90, era facile
capire perché gli uomini, in difesa dei loro interessi di gruppo e come
principali autori di essa, avessero limitato in gran parte, la sua definizione.
Si prese coscienza che definire qualcosa è sempre problematico. C’è bisogno di
una buona teorizzazione e prova empirica. Occorre, però, come afferma Marta
Minow, aver presente, che le definizioni
si costruiscono socialmente, che le categorie non rientrano in modo naturale
nel mondo, ma che sono caricate di pregiudizi incartati in norme culturali, in attese
e valori sociali.
L’intenso lavoro dalla prospettiva femminista permise
di problematizzare le definizioni dominanti e ampliarle in modo più inclusivo. La
comprensione della violenza poté essere adattata gradualmente a quella che era
la reale esperienza delle donne, individuando un’ampia gamma di comportamenti
fisici, verbali, sessuali, emozionali e psicologici, che le donne vivevano come
violenza, perché producevano sistematicamente umiliazione e disprezzo, perdita
della propria autonomia fisica e mentale e una rottura dello strato più profondamente
emotivo che, nei casi più gravi, poteva provocare una totale mancanza di
rispetto per se stesse. Tuttavia, le ricerche femministe oggi, devono ancora
affrontare le tensioni delle definizioni dominanti come quella, per esempio, di
ciò che significhi, essere violentata, e di quello che molte donne vivono come stupro anche
se in silenzio. La prova empirica portata dalla letteratura femminista ha
dimostrato che, molte donne rimangono in silenzio, perché prevedono la
situazione di mancanza di rispetto o quella di non essere prese sul serio.
Un ambiente che promuova la libera espressione di
queste esperienze di abuso è un contesto più democratico, perché aiuta a
identificare e nominare questi problemi, perché aiuta a sviluppare un
linguaggio normativo che nomini questa ingiustizia. Ci deve essere un contesto
politicizzato e consapevole, che davvero metta in discussione le strutture di
genere che governano le nostre società.
Oggi, tutto il dibattito sulla diseguaglianza di genere
è andata perduto. Non c’è nessun membro del governo che lo sostenga, nessun
progetto istituzionale che lo assuma e che articoli uno schema politico diretto a
eliminare le relazioni assi metriche di potere che sono radicate nella
diseguaglianza di genere.
Quest’assenza del discorso, tuttavia, funziona
ideologicamente, perché la mancata assunzione della violenza di genere è l’implicita
assunzione della disparità di genere nell’orizzonte politico. Per questo, mantenendo
il silenzio, il governo (i governi) egualmente si schiera. Prima di riformare
una qualsivoglia legge sulla violenza di genere – come ha dichiarato di recente la
ministra spagnola Ana Mato - forse è più importante che si cominci ad
applicarla.
(traduzione di Lia Di Peri)
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