sabato 7 febbraio 2015

Il femminismo digeribile





 
I modesti progressi in tema di diritti (modesti per la loro portata ed "evoluzione" dolorosamente lenta) si mescolano con i segni più crudeli della società patriarcale come i femminicidi e gli stupri, che non diminuiscono. Se non fosse tragico, si potrebbe dire che sia ironico.
In questo contesto, i Media sono diventati il "campo di battaglia” del femminismo della lobby parlamentare, quel femminismo che si conforma al concetto “alcuni diritti per alcune donne, perché il niente sarebbe peggiore”. Detto così potrebbe suonare duro e massimalista, ma celebrando piccole concessioni si trascurano contemporaneamente le richieste urgenti e profonde della maggior parte della metà del mondo. L’eccessiva rappresentazione femminile nel lavoro precario, nella tassa della povertà, la differenza tra la vita e la morte, che significa la criminalizzazione dell'aborto, per citare alcuni esempi.

La roccaforte di questa “battaglia culturale” ha trovato posto in quella tendenza pubblicitaria chiamata "fempowerment" (potenziamento femminile). Aziende come Dove e Always scelgono questa strategia per vendere i loro prodotti, perché gli stereotipi non vendono più come prima. Nonostante che, sopravvivano immagini di casalinga e madre devota, le aziende devono dirigersi verso una generazione di donne che lavorano fuori di casa, che occupano posti di rilievo, guidano organizzazioni e, soprattutto, un importante settore di consumo.
Se molte idee femministe sono visibili nei media, ciò vuol dire che si sono superati pregiudizi machisti e immagini sessiste? In parte sì, ma non è possibile scindere questo “risultato” dalle lotte che le donne hanno dato per decenni e sarebbe ingenuo pensare che il capitalismo non si sia appropriato a suo modo, di queste idee.
Questa riappropriazione non è innocua o disinteressata. Si fabbrica un’immagine di donna che la differenzi dalla casalinga anni ‘50, ma la donna nella pubblicità resta bianca, occidentale, eterosessuale e, naturalmente, di classe media.
L’unica differenza è semplicemente che alla casalinga vendevano un forno che avrebbe fatto felice il marito, oggi, la donna moderna, balla in un supermercato mentre compra lo yogurt e canta “Non mi piace pagare meno”. Questa donna moderna non è una donna qualsiasi. Nulla ha che vedere, per esempio, con le lavoratrici precarie, che sono ironia della sorte le principali destinatarie dei prodotti della casa, dei pannolini, del cibo. Le immagini della sua vita reale resta invisibile.
Le bambine non giocano più  a fare la mamma, adesso, corrono e colpiscono come una “ragazza” (Always), sognano di essere scienziate (Verizon) e non sono condannate ai giocattoli rosa. Anche queste bambine non sono bambine qualsiasi. Non sono le bambine che, in tutto il mondo, ingrossano le fila della povertà, che vedono frustrati i loro sogni, perché non arrivano a finire le medie o che trascorrono lunghe giornate a prendersi cura dei loro fratelli e sorelle e fanno i lavori domestici che le loro madri non possono fare.

Le pubblicità “ femministe” recitano: “Essere una donna non è una cattiva cosa né essere inferiore, essere donna è molte cose”. Questo può essere un messaggio “coraggioso” per milioni di telespettatori, però non combatte né la misoginia né il machismo ed è assolutamente insufficiente.  Che cosa ha a che fare uno yogurt con due secoli di lotte delle donne? Poco o nulla.  Però questa “ guerra culturale”, questo femminismo del “ peggio che niente” sta trasformando la lotta e la critica in agenda “razionale” e accettabile per questa società. Niente di più lontano da qualunque traccia radicale, di quelle lotte che conquistarono i diritti fondamentali.
Non è un risultato logico, non un destino inevitabile. Per il femminismo della prima ondata (inizio del XX secolo), non c’era divisione tra i diritti politici e sociali delle donne.  Questo portò l’ala sinistra del suffragismo a convergere con le lotte operaie. Ci sono diversi esempi: negli Stati Uniti, le suffragette sostennero lo sciopero delle operaie tessili nel 1909; in Inghilterra, l’ala radicale del suffragismo rifiutò i “ diritti per servire” (nella Grande Guerra) e si unì alla lotta delle lavoratrici; in Argentina, suffragette come Julieta Lanteri collaborarono a stretto contatto con le grafiche e le lavandaie nel primo ‘900.
Per il femminismo della seconda ondata (1960-1970) la lotta contro il patriarcato si legava in modo naturale alla messa in discussione del capitalismo e questa non era una visione marginale. Tuttavia, una larga parte si è convertita al femminismo tecnocrate e da Ong, a ritmo della restaurazione conservatrice e si è insediato negli uffici e agenzie governative.
Poiché questi settori hanno lasciato la strada (farla finita con il capitalismo per farla finita con il patriarcato) e la prospettiva anti-capitalista, le classi dirigenti sono stati in grado di attingere a queste idee, addomesticandole. Così fu troncata l’emancipazione con l’integrazione, la tolleranza con la libertà e la liberazione delle donne con il  femminismo "digeribile".
L'idea più pericolosa di detto femminismo è accettare lo stato attuale delle cose, le minime e condizionate concessioni, i diritti limitati per alcune donne, credendo che cedendo qualcosa arriverà il momento in cui, tutti i nostri diritti saranno riconosciuti. Non per essere guastafeste, però il patriarcato è sopravvissuto per secoli, si è adattato a nuove condizioni e la società capitalista ha solo aiutato a perpetuarlo. Non comincerà, di certo, a farci dei favori nel 2015.

La lotta per i diritti delle donne, la lotta contro il machismo, l’emancipazione femminile, non è passata di moda. Quello che è anacronistico è il femminismo che si adegua e si adatta al femminismo digeribile.


la izquierda diario.com

(traduzione di Lia Di Peri)

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