Silvia Federici (1942, Parma) parla e sorride con
calma. Ha le mani rugose e la lingua tagliente. E’ l’autrice di Calibano e la
strega, corpo e accumulazione primitiva, il libro che incorpora nella caccia
alle streghe, l’analisi marxista della transizione dalla società feudale al
sistema capitalista. Joana García
Grenzner l’ha intervistata quando, a Barcellona, ha presentato questo libro.
Oggi, Federici è la femminista più nota.
Com’è
stata la visita a Zugarramurdi?
Visitare la zona
mi ha molto emozionata. E’ l’unico posto dei Paesi Baschi, secondo le mie
ricerche, in cui gli uomini erano organizzati contro le streghe. Nel 1609 hanno
iniziato a imprigionare, torturare e uccidere molte donne. Le cacciavano con
gli strumenti che usavano i marinai per la caccia alle balene. Mi ha molto
turbato vedere come stanno facendo affari vendendo un’immagine delle streghe
che non corrisponde alla realtà. Stanno diffondendo una falsa immagine che
degrada e le ridicolizza: donne grasse, con un naso grosso e vecchio.
Mantengono l’immagine che crearono di esse i loro cacciatori.
Che
cosa proponi?
Mi piacerebbe vedere una mobilitazione di donne nella
quale si dicesse: Basta guadagnare denaro sulla nostra pelle”. Nei posti della
zona avrebbero dovuto esserci dei cartelli che spiegassero cosa fosse realmente
accaduto. E’ tempo di rivelare la storia di sangue, tortura, violenza e
persecuzione.
Il femminismo è smobilitato?
Il femminismo è oggi un fenomeno molto complesso. Da un
lato c’è un nuovo movimento che sta sorgendo dalle più giovani, perché
continuano ad avere la vita più difficile che degli uomini. Tutte le aspettative,
una carriera, lavoro fuori di casa, divisione dei compiti, non si sono
realizzate o si sono realizzate in modo limitato. Dall’altro lato, c’è un gran
decadimento del femminismo, che è cominciato negli anni ’70 con le Nazioni
Unite. L’ONU ha invaso il territorio femminista se n’è appropriato distorcendolo:
ha ridefinito la sua agenda e ha distrutto tutto il suo potenziale sovversivo
mantenendo solo una prospettiva neo-liberale.
Che
cosa sarebbe questa prospettiva?
Quella che afferma che, la liberazione delle donne,
passa per la sua carriera professionale e le pari opportunità. Sono
rivendicazioni capitaliste e neo- liberiste. L’ONU ha creato un femminismo
globale in cui le donne fanno parte di conferenze e Ong internazionali.
Attaccano il lavoro non pagato, svalutando la riproduzione ed evitando di
criticare come il capitalismo ha usato il corpo delle donne. Hanno creato un
femminismo molto conciliante con l’agenda neo-liberista. Dobbiamo riappropriarci delle politiche
femministe.
Il movimento femminista è morto?
Credo che oggi non esista un movimento femminista come
movimento sociale di massa. Esiste un femminismo culturale, ma non un
femminismo come forza politica e sociale. C’è una politica femminista che si
trova in ogni movimento sociale, perché tutti hanno dovuto parlare con il
femminismo. Non siamo nella stessa situazione di trent’anni fa. C’è molta più
parità e noi donne abbiamo più autonomia rispetto agli uomini, però non
rispetto al capitale. Non c’è una forza capace di contrastare il capitalismo.
Alcune giovani donne hanno ripreso forme di comportamento che noi avevamo
rifiutato e credo che ciò dimostri che stiamo andando verso una regressione.
Nel tuo lavoro, tu hai parlato del femminismo come una “rivoluzione incompiuta”. Il
femminismo ha creato coscienza ma è fallito in quanto all’incidenza?
Sì. Il movimento femminista non è stato in grado di
contrastare il processo di globalizzazione, che è stato riempito di continui
attacchi al lavoro riproduttivo a tutti i livelli. Non è stato capace di
opporsi ai tagli sociali, non è stato in grado di cambiare l’organizzazione del
lavoro. Oggi, le ore lavorative sono di più che nel passato. Dieci ore! La conciliazione
familiare è impossibile. Assistiamo a una grande crisi sul terreno della cura e
le donne non hanno più il tempo per riposare, per leggere, né per partecipare a
una riunione politica o a una manifestazione. Non hanno tempo per se stesse.
Viviamo in continua ansia per la sopravvivenza. Le donne negli Stati Uniti
consumano una gran quantità di antidepressivi. Sono vite piene di ansia,
preoccupazioni e lavoro, lavoro, lavoro.
In
che cosa ha sbagliato il femminismo?
Negli anni '70, quando abbiamo dovuto prendere
decisioni strategiche, sia negli Stati Uniti sia in Europa, il movimento
femminista abbandonò completamente il terreno della riproduzione e s’impegnò,
quasi esclusivamente, sul lavoro fuori di casa L'obiettivo era di conquistare
l'uguaglianza attraverso il terreno lavorativo. Gli uomini però erano oppressi
in questo settore e raggiungere l’uguaglianza in fastidi e oppressioni non fu
una strategia. Entrarono nel mondo lavorativo che era stato dominato dagli
uomini, ma non videro che era il momento di attaccare il lavoro salariato. C’è
stata una mancata visione del contesto sociale ed economico in cui si stava
combattendo. Abbiamo combattuto con armi che non funzionavano.
A quel tempo, io lavoravo in un’organizzazione chiamata
“'Campagna Internazionale per salari per i lavori domestici”. Pensavamo che
senza la lotta per il lavoro riproduttivo non avremmo ottenuto nulla. Per
cambiare la situazione delle donne, c’è da cambiare tre tipi di relazioni:
donne- Stato, donne-uomini e donne – capitale. Il lavoro riproduttivo è qui una
priorità. E’ il problema centrale, perché i ruoli che il capitalismo ha
disegnato per le donne iniziano da qui: il capitalismo ha creato la divisione
internazionale sessuale del lavoro. Dobbiamo partire da qui. Il movimento
femminista non ha preso questa strada ed è una delle ragioni per le quali non
ha potuto provocare grandi cambiamenti.
Nasce
da qui la tua idea di “Rivoluzione zero”?
Sì, la Rivoluzione zero è quella che ancora non si è
fatta, perché non si è preso in considerazione il problema della perdita di
valore del lavoro riproduttivo.
Stiamo vivendo una guerra contro le donne?
Sì, sì, sì, sì. Il capitalismo e la globalizzazione
attaccano i mezzi di riproduzione: espropriazione delle terre, tagli nello
Stato sociale, precarizzazione del lavoro e della vita. E’ una strategia
classica del capitalismo, che Marx chiamava “ accumulazione originaria”: se
vuoi aumentare i tuoi benefici e imporre una certa disciplina devi separare gli
uomini e le donne dai mezzi di riproduzione. Se non hanno come riprodursi,
dipendono da te. Accettano qualsiasi condizione. E chi sono i primi soggetti
sociali impegnati nella riproduzione? Le donne.
Non puoi attaccare la riproduzione della forza lavoro
senza attaccare le donne. La violenza contro le donne è parte del processo. In
America Latina e in Africa, per esempio, dove le donne erano impegnate nell’
agricoltura di sussistenza, che stanno facendo le istituzioni internazionali?
Strappare quella terra, privatizzarla.
Non
credi sia pericoloso concentrare tutta la critica sul capitalismo? Le donne non
sono libere dalla violenza negli altri sistemi.
Non ci sono altri sistemi, a parte il capitalismo, né a
Cuba, né in Venezuela. Scherziamo? L’idea che il capitalismo sia solamente un
sistema economico è un pregiudizio capitalista. E’ un sistema culturale e sociale.
Non c’è economia, senza relazioni sociali, culturali o politiche. Oggi, tutti e
tutte viviamo in un sistema capitalista. Ci sono paesi che distribuiscono la
ricchezza meglio di altri, però non esistono paesi fuori dall’economia di mercato.
Non serve dire che vogliamo una società che non sia
capitalista, perché potremmo costruire un sistema ancora peggio. Ciò che io
voglio è creare una società non gerarchizzata, che non si basi sullo
sfruttamento del lavoro di altre persone.
Però, il patriarcato non è un sistema
autonomo?
Personalmente, non lo credo. Il patriarcato da sempre
ha fatto parte dei sistemi che si appropriavano del lavoro umano. Il corpo
delle donne è una fonte di ricchezza, che ha nei figli e nelle figlie la
manodopera. Siamo nella logica dello sfruttamento lavorativo. Il patriarcato
non comincia con gli uomini che dominano le donne, ma con un sistema di lavoro
che opprime gli uomini e che si basa nel controllo della sua principale fonte
di ricchezza. Vi rendete conto della
ricchezza che presuppone il corpo delle donne? Immaginate se le donne
decidessero di non avere più figli e figlie! Immaginate cosa succederebbe?
Il lesbismo potrebbe essere una soluzione?
Le lesbiche, oggi, hanno figli.
Non lascerai fuori dalle tue analisi le lesbiche?
Ho scritto molto su capitalismo e sessualità, sulla
disciplina della sessualità che il capitalismo ha imposto. Negli anni ’70 parlavamo
di una grande contraddizione nel capitalismo. La divisione del lavoro era
allora, una divisione omosessuale: gli uomini lavoravano con gli uomini e le
donne con le donne. L’eterosessualità esisteva soltanto nel matrimonio. Era
difficile poi comprendersi dentro il matrimonio. La famiglia non è mai stato un
luogo di serenità.
D’altra parte negli anni ’60 e ’70 io avevo chiaro che
il lesbismo aveva un valore di rottura per molte ragioni. Il capitalismo dà il
comando agli uomini, li trasforma in emissari del sistema in casa e in una relazione
lesbica ciò non accade. Inoltre, il lesbismo presuppone una grande
valorizzazione delle donne, in uno spazio di tranquillità, di liberazione da
tantissime pressioni. Adesso, però, ho capito che ciò non basta, perché in una
società eterosessuale, le relazioni lesbiche riproducono la logica etero
patriarcale.
Credo, anche se non ne sono sicura, che questa capacità
di rottura che il lesbismo una volta possedeva oggi, sia meno forte. Proprio il
capitalismo ha ristrutturato la sua idea di famiglia per integrare le coppie
omosessuali. Da qui, l’approvazione del matrimonio gay in tanti luoghi.
Ovviamente, il capitalismo ha bisogno di organizzare le
case intorno al lavoro riproduttivo.
In
questo contesto di crisi, nel quale si sono imposte come moda le torte e
tortine, non si sta celebrando il lavoro riproduttivo?
C’è un gran dibattito, ora negli Stati Uniti, su
questo. E’ un tipo di valorizzazione del lavoro a livello psicologico, però non
c’è nessuna rottura a livello politico. E’ tutto il contrario. E’ una valvola
di sicurezza. Non è un cambiamento, né rompe con il sistema. Significa soltanto
che se hai tempo e soldi, puoi farti le tue torte in casa [ride].
Ma non
è pericoloso che passi questo messaggio?
Il nostro discorso di valorizzazione del lavoro
riproduttivo non ha nulla a che fare con le torte in casa. Dobbiamo lottare
contro la deforestazione e il disboscamento; lottare perché non siano
contaminati i fiumi e i mari; mettere la ricchezza prodotta a servizio delle
donne. Si tratta di cambiare la logica del sistema. Produrre per la vita, non
per il mercato. Nessun bignè.
E
se la torta la fa un’altra?
Il movimento
femminista ha fatto un grosso errore, non lottando per il salario domestico.
Che succede adesso? Che questa carica di
lavoro lo assume un’altra donna. Molte, migranti. La ristrutturazione del
lavoro domestico si fonda su una grande ingiustizia: donne che lasciano le loro
famiglie e vanno lontane dalle loro case a curare le famiglie di altre donne. E’
vero, anche che ci sono donne che possono farsi carico delle loro famiglie
senza aiuto. Odio essere moralista in questo senso, perché a volte non c’è
altra scelta, però dobbiamo avere una strategia politica, che ci porti a un
cambiamento di paradigma in cui uomini e donne decidano come riprodursi senza
logica di potere.
traduzione di Lia Di Peri.
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