da Vincenza Perilli
Ci è appena giunta notizia dell'uccisione (avvenuta a Sirte, sua città
natale) di Muammar Gheddafi. In questi anni non gli abbiamo certo fatto
sconti, pur ricordando quello che comunque è stato, ha fatto, ha rappresentato. Ora la sua morte - atto finale di una guerra neocoloniale feroce e ipocrita che un'altra ne ricorda -, così come il compiacimento meschino di chi in tempi utili gli baciava la mano, ci fa vomitare.
Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano
Come sottolinea Nicola Labanca1,
è negli elenchi stradali italiani che permane il ricordo – altrove
rimosso – delle imprese coloniali dell'Italia unita: una piazza Adua, un
corso Tripoli o una via Mogadiscio, sono frequenti nella toponomastica
non immemore delle nostre città. Più difficile sembra, invece, trovare
qualcuno/a capace di spiegarcene il senso. Ai più sfugge, ad esempio, il
legame tra una “via Libia” - che a Bologna costeggia un quartiere
familiarmente detto “della Cirenaica”2 – e i ripetuti tentativi di “conquista” di queste terre da parte dell'Italia liberale prima e di quella fascista poi.
Chi
ricorda la spietata rappresaglia italiana all'indomani della sconfitta
subita a Sciara Sciat (villaggio alle porte di Tripoli) ad opera dei
ribelli libici nel 1911, la “caccia all'arabo” che si scatenò tra le vie
della capitale con impiccagioni collettive nella centrale Piazza del
Pane e deportazioni di massa verso l'Italia che
durarono almeno fino al 1916? Qui (nelle prigioni delle Isole Tremiti,
di Favignana, di Gaeta, di Ponza, di Ustica...) coloro che non erano
morti nella traversata, morirono in gran numero per le condizioni
inumane di prigionia, le malattie non curate, il lavoro forzato e i
maltrattamenti. A tutt'oggi, scrive Angelo Del Boca, “ci sono famiglie
in Libia che vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari”3.
E
chi ricorda – ancora –, durante la “riconquista” della Libia negli anni
30, le rappresaglie, le distruzioni sistematiche, le deportazioni di
massa di civili (che causarono 60 000 morti nella sola Cirenaica, anche
bambini/e), l'impiccagione, tra gli altri, il 16 settembre 1931 – in
spregio ad ogni convenzione internazionale – di Omar el Mukhtar, uno dei capi della resistenza locale?
I
responsabili di questi ed altri crimini dell'impresa coloniale italiana
non hanno mai pagato. E credo non si possa più tollerare che a pagare
siano – ancor oggi – le vittime, con un prezzo che si chiama oblio,
cancellazione, rimozione. Si chiama mito degli “italiani, brava gente”.
Un mito secondo
il quale il colonialismo italiano è stato, a confronto di altri
colonialismi coevi, buono, umano e tollerante. Un colonialismo, come
scrive efficacemente Paola Tabet, “all'acqua di rose”4.
Un mito talmente persistente che neanche i puntuali studi storiografici
– a partire dall'opera pioniera di Del Boca alle importanti ricerche
degli ultimi decenni di giovani storici e storiche5
– , sono riusciti realmente a scalfire. Più facile, o forse comodo,
introiettare un mito che è insieme tranquillizzante e autoassolutorio
piuttosto che farsi carico della consapevolezza di questo ingombrante
passato che getterebbe, certo, una luce troppo inquietante sul presente6.
Questo mito è frutto di un
lungo processo di rimozione, perseguito tra l'altro con tenacia già
all'indomani della firma del trattato di pace di Parigi il 10 febbraio
1947 che privava per sempre l'Italia delle colonie, quando lo stato
italiano anziché avviare un dibattito sul colonialismo, cercò di
occultare e distorcere con ogni mezzo la realtà. Ne è un esempio la
pubblicazione in cinquanta volumi, a cura del ministero degli Affari
Esteri, dell'opera L'Italia in Africa.
Spacciata come una sintesi e un bilancio delle presenza italiana nelle
colonie, si rivela invece come una colossale mistificazione atta a
esaltare i meriti della colonizzazione italiana.7
Indubbiamente
rispetto ad altri colonialismi coevi, il colonialismo italiano presenta
alcune “diversità”. Anzitutto l'Italia era stata unificata da appena un
ventennio quando – fra il 1882 e il 1885 – fece le sue prime esperienze
coloniali, che ebbero la loro fase culminante in anni in cui altre
imprese coloniali dovevano già fare i conti con il processo di
decolonizzazione. Fu anche un'esperienza circoscritta nel tempo, poco
più di 60 anni : dal 1982 in Eritrea, dal 1889 in Somalia, dal 1911 in
Libia e dal 1935 in Etiopia e tutte potevano dirsi concluse nel 1943,
come anche il “protettorato”in Albania e le colonie nelle Isole Sporadi
meridionali (dette impropriamente Isole Egee), storia coloniale tra le
più dimenticate8.
Inoltre, rispetto ai ben più vasti imperi di altre potenze – si pensi
all'Inghilterra o alla Francia – le colonie italiane erano anche
circoscritte geograficamente, e più “povere”, quindi economicamente meno
vantaggiose. Infine, fin dalle origini, il colonialismo italiano si
caratterizzò per un'assoluta ignoranza del territorio e delle
popolazioni che vi abitavano considerate barbare, inette e militarmente
incapaci, sottovalutando di conseguenza anche le loro capacità di
resistenza. Queste le ragioni che portarono, ad esempio, alla celebre
sconfitta di Adua, quando l'esercito guidato dall'imperatore Menelik II e
dall'imperatrice Taitù Zeetiopia Berean – figura mitica di donna
guerriera, che anticipa altre celebri resistenti come Kebedech Seyoum9 –
infligge agli italiani quella che è unanimemente considerata la più
grande sconfitta mai subita dai colonizzatori “bianchi” in Africa,
intaccando per sempre “i reticolati del più vasto campo di
concentramento della terra”10 Ma
queste diversità non hanno determinato una minore “brutalità”
dell'impresa coloniale italiana, come il mito degli italiani brava gente
vorrebbe farci credere.
Semmai
l'Italia, giunta in ritardo sullo scacchiere coloniale, poteva vantare
su una lunga tradizione di “razzismo interno”, che trovò il suo culmine
nella cosiddetta “guerra al brigantaggio”, che come ci ricorda Del Boca
“ fu anche 'una guerra coloniale', che anticipò, per le inaudite
violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle combattute in seguito
in Africa. Non fu forse il generale d'armata Enrico Cialdini,
luogotenente di re Vittorio Emanuele II a Napoli, a dichiarare: 'Questa è
Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono
latte e miele'?”11.
Latte
e miele che non impedirono certo i massacri e le deportazioni, gli
inferni delle carceri eritree – e tra queste la famigerata Nocra – , il
lavoro forzato in Somalia – chiamato dai Somali “schiavismo bianco” –, i
campi di concentramento in Libia, l'uso massiccio di gas come fosgene e
iprite – già vietati dalla Convenzione di Ginevra – per piegare la
resistenza etiopica, la strage, tra le altre, di Debrà Libanòs o la
feroce rappresaglia che si scatenò per le vie di Addis Abeba in seguito
all'attentato, il 19 febbraio 1937 al viceré d'Etiopia maresciallo
Rodolfo Graziani12.
Senza dimenticare la politica di segregazione razziale e di “difesa del
prestigio della razza” imposta dal regime fascista in Africa a partire
dal 36, con la proibizione assoluta di rapporti sessuali interrazziali
nella cosiddetta colonia per maschi”13. Un aspetto questo essenziale per un'analisi delle articolazioni – anche odierne – del sessismo e del razzismo.
L'immagine della donna “indigena”, esotica, disponibile e voluttuosa era stato uno dei cliché
massicciamente diffusi nei primi anni della conquista coloniale
italiana – anche attraverso una serie di cartoline che ebbero larga
diffusione -, funzionando come una sorta di “richiamo erotico” per i
colonizzatori, secondo la sovrapposizione simbolica della conquista
sessuale con quella coloniale già collaudata in altri contesti
nazionali. Per i primi quarant'anni il cosiddetto madamato viene
largamente tollerato mentre la presenza delle donne “bianche” in colonia
è generalmente scoraggiata . Ma a partire dalla proclamazione
dell'Impero le “unioni miste” (sia nella forma del madamato che del
matrimonio) cominceranno ad essere osteggiate fino ad essere proibite
del tutto con il decreto dell'aprile 1937 e mentre la prostituzione
subisce un'impennata la presenza delle donne “bianche” in colonia – come
mogli, anche potenziali dei “cittadini bianchi” - comincia ad essere
incoraggiata fortemente. In questo modo si realizza da una parte
“l'ufficializzazione della percezione delle donne native come
prostitute”14 e
dall'altra la celebrazione ulteriore della donna “bianca” come moglie e
madre. Del resto queste ultime sono le uniche a poter accedere allo
statuto di “donna”, le altre sono “femmine”, come scrive un ex colono
italiano nelle sue memorie: “Femmine ce ne sono in colonia, nere
esuberanti e generose; mancano le donne, le quali non possono essere che
bianche”15
1Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, p. 7
2La
Cirenaica, insieme alla Tripolitania, è stata una delle regioni
libiche che ha maggiormente subito l'invasione coloniale italiana.
3Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, p. 115.
4Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997, p. VII.
5Impossibile
fornire nel contesto di questo breve articolo, una bibliografia
esaustiva. Mi limiterò a segnalare alcuni testi di Angelo del Boca, tra
i quali i quattro volumi de Gli italiani in Africa orientale editi da Laterza (Dall'unità alla marcia su Roma, 1976; La conquista dell'impero, 1979; La caduta dell'Impero, 1981; Nostalgia delle colonie, 1984) e L'Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Laterza, Bari 1992; i testi di Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1973 e “L'impiego dei gas nella guerra d'Etiopia. 1935-1936”, in Rivista di storia contemporanea, n. 1, 1988, p. 74-109; il volume di Nicola Labanca, In marcia verso Adua,
Einaudi, Torino 1993. Per quanto riguarda la lettura delle vicende
coloniali italiane in una prospettiva di genere, ricordo il saggio di
Gabriella Campassi, “Il madamato in A.O: relazioni tra italiani e indigene come forma di aggressione coloniale”, in Miscellanea di storia delle esplorazioni, XII (1987) e i volumi di Giulia Barrera, Dangerous liaisons. Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941, Evanstone (Illinois), Northwestern University 1996 e Barbara Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interraziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998. Vorrei inoltre ricordare, a quasi tre anni dalla morte, Riccardo Bonavita con
il suo saggio “Lo sguardo dall'alto. Le forme della razzizzazione nei
romanzi coloniali e nella narrativa esotica”, in Centro Furio Jesi (a
cura di), La menzogna della razza, Grafis, Bologna 1994.
6Mi
sembra di poter cogliere un sintomo di questa rimozione anche nel
linguaggio cosiddetto “critico” o “militante”, dove la tendenza –
oramai consolidata – all'uso di metafore o immagini che rinviano al
passato per descrivere o contestare il presente, solo in rare eccezioni
trova nell'impresa coloniale italiana un utile serbatoio dal quale
attingere. I recenti “rastrellamenti” di migranti sui mezzi pubblici in
diverse città italiane come anche l'odioso atto di razzismo di un
capotreno contro una passeggera migrante, hanno evocato il
segregazionismo nell'America razzista del secolo scorso o l'aphartheid
sudafricano, ma non la politica di segregazione razziale imposta
dall'Italia fascista a partire dal 36 nelle sue colonie africane.
7Cfr. Angelo Del Boca, “Gli studi storici e il colonialismo italiano”, prefazione a Enrico Castelli ( a cura di), Immagini&colonie, Centro documentazione del museo etnografico Tamburo Parlante, Montone 1998, pp. 7-8.
8Nicholas Doumanis (1997), Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell'Egeo, Bologna, Il Mulino, 2003
9A
Kebedech Seyoum, splendida combattente durante l'occupazione fascista
dell'Etiopia, Gabriella Ghermandi dedica una delle sue “storie” nel
bellissimo Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007.
10Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. Dall'unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 701.
11Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, op. cit., p. 57.
12Tre
giorni di vera e propria “caccia all'uomo”(uomini, donne, bambini/e)
che provocò, a seconda delle fonti, da un minimo di 1400 a un massimo
di 30 mila morti.
13Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre Corte, Verona 2007.
14 Barbara Sòrgoni, Parole e corpi, op. cit., p. 244.
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