domenica 23 febbraio 2014

Costruire un discorso non materno

di Beatriz  Gimeno




L'altro giorno, al crepuscolo di un incontro serale, parlando di queste cose che di solito non sono menzionate in pieno giorno, alcune amiche, hanno finito di parlare con assoluta franchezza della maternità. E, tra una chiacchiera e l’altra, siamo state in molto a essere d’accordo sul fatto che il femminismo ha molto da dire sulla maternità, anche se si potrebbe pensare che tutto è stato detto: alla fine e all’inizio, la maternità è da sempre uno dei suoi temi.
Abbiamo scoperto che, se anche la maternità, è stata studiata, analizzata e contestata e che la rivendicazione dei diritti riproduttivi è una costante del femminismo, non c’è al suo interno un discorso chiaramente non maternale.
Anche se, apparentemente la maternità ha cambiato aspetto, noi abbiamo il diritto di chiederci se questo cambiamento è stato più un semplice modernizzarsi, per rimanere in fondo, un discorso prescrittivo, progettato per continuare a mantenere pienamente operativo il binomio eterno donna-madre, anche se ora è una donna moderna e anche madre moderna. Il femminismo, secondo me, tende a ignorare la natura compulsiva della maternità e a minimizzare il suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne.
Il tabù che incombe su ogni discorso antimaternale dentro il femminismo, non fa che evidenziare la natura conflittuale di un problema che non riguarda solo la configurazione dell'identità delle donne, ma lo stesso mantenimento dell'ordine sociale nel suo complesso.
Durante la maggior parte della sua storia moderna, il principale obiettivo del femminismo è stato difendere una condizione materna compatibile con la vita (nel senso più letterale) o, nei paesi ricchi, difendere un'organizzazione materna che permettesse di essere madre senza abbandonare l’uguaglianza. Il fatto che siano state queste, le due preoccupazioni logiche e giuste, non vuol dire però che si debbano soffocare altre possibilità di pensare la maternità. In generale, salvo eccezioni, sono poche le voci che hanno formulato discorsi opposti  a un problema che semplicemente si assume come normale, naturale, inevitabile, indiscutibile, ecc. Quasi tutte le posizioni femministe circa la maternità, partono in tutti i casi, dall’assunto indiscutibile, che la maggior parte delle donne del pianeta, vogliono essere madri, e che in ogni caso essere madre, è una buona cosa.
Non si tratta di dire se la maternità è buona o cattiva, ma semplicemente di attirare l’attenzione sul fatto che si tratta di un'istituzione talmente iscritta nella nostra organizzazione sociale e nella nostra soggettività da non ammettere un solo discorso contrario, anche se minoritario. Non può essere che da un’esperienza umana con una potente capacità di cambiare la vita di qualunque donna, non possano esserci argomenti negativi, se non altro, perché, la pluralità di punti di vista è sempre sperabile di fronte a qualsiasi complessa questione. La verità è che non esiste nessun’altra istituzione sociale che abbia stesso indice di accettazione e di assenza di critica: questo dà da pensare. E 'vero che quando parliamo di diritto all’aborto o di diritti riproduttivi, ciò include il diritto a non avere figli, ma è qualcosa che è implicito, ipotizzato, non un diritto esplicito, né tanto meno che si renda visibile culturalmente, non soltanto in termini di uguaglianza, ma come elemento positivo, come discorso alternativo ai discorsi materni egemonici.
La questione fondamentale è: si può davvero scegliere qualcosa, quando, una delle due possibilità è quasi un tabù sociale, scientifico, politico, ecc? In realtà, le donne fanno scelte sulla maternità in un contesto coercitivo non solo di non avere figli, ma soprattutto avere accesso ai vantaggi o alla felicità che può dare non averli, così come l'ignoranza dei problemi, gli svantaggi o l’infelicità che può comportare averli. Qualunque posizione politica o personale contraria al discorso materno riceve una sanzione sociale, economica o psicologica brutale. E’ in questa direzione che l’assenza di alternative del discorso pro-maternità è totalitario.
L'unico discorso negativo sulla maternità che è consentito è quello della cattiva madre, la madre perversa, quella che non ama i suoi figli/figlie, quella che li maltratta. E il discorso sulla cattiva madre serve solo per migliorare e prescrivere un tipo di maternità, precisamente contraria a quella esercitata dalla buona madre. Perché la cattiva madre è l’immagine peggiore che qualunque cultura assegna ad alcune donne : nessuna vuole occupare quel posto. Si può assumere dal femminismo e difendere la cattiva sposa, la cattiva compagna, la figlia cattiva, la cattiva amante, la cattiva lavoratrice, la cattiva donna, la cattiva in generale (“le brave ragazze vanno in paradiso, quelle cattive vanno ovunque”), ma, la cattiva madre? Che l’idea ci risulti così personalmente devastante, è il sintomo del ferreo controllo sulla maternità e, quindi, sulle donne. Essere cattiva madre è (quasi) la cosa peggiore che una donna possa essere.
Non essere madre è una scelta personale a disposizione di pochissime donne nel mondo e si porta con discrezione, quasi in solitudine e sulla quale continuano ad abbattersi le sanzioni sociali. La non madre passerà la vita a contrastare domande che danno per scontato che la normalità è, essere madre. Anche se tale margine di scelta è molto stretto, c'è però un'altra questione ancora più vietata: quella di essere madre e pentirsene. Ci sono molte barriere psicologiche e sociali per esprimere qualcosa di simile, anche a se stessa. La madre che si penta di aver fatto questa scelta, mai lo confesserà. Dichiararsi pentita della maternità è riconoscere che non si vogliono i figli, o che non si vogliano a sufficienza e, da qui, nuovamente si rientra nella categoria della cattiva madre. Eppure la maternità è una tal esperienza determinante nella vita di ogni donna, che presumibilmente è impossibile pentirsi o  pensare che  se si fosse conosciuto ciò che significa essere madre, si scelga di non esserlo. E ciò si può pensare anche volendo i propri figli o amandoli moltissimo: non è una contraddizione.
Perché: è obbligatorio avere figli? C’è una misura di minimo amore obbligatoria? La maternità impone che essi siano sempre in cima a tutto, soprattutto alle donne stesse. L’amore materno si presume sempre e in ogni caso incondizionato ed è una delle sue caratteristiche principali. In realtà, questo è ciò che definisce la maternità. Tuttavia, l'amore del padre si presume meno condizionato. In realtà, non esiste l’amore paterno come categoria. I padri, in generale, amano i loro figli, ma senza che quest’amore sia classificato come assoluto, come estremamente generoso o incondizionato. Piuttosto sembrerebbe che ogni padre ami i suoi figli e figlie, come può o come vuole. L’amore materno invece non ammette imperfezioni.
E possiamo andare anche oltre: si può non volere i propri figli e non essere un mostro. I figli si hanno nella più completa ignoranza, in cui nessuno sa come sarà quando arrivano e invadono per sempre la vita, anche quando tutto è pieno d’immagini positive, quasi celestiali, della maternità. Eppure, la delusione o provare sentimenti che non sono quelli sperati, non è così raro come si potrebbe supporre: le depressioni che colpiscono le madri più di altre donne e che dagli uomini sono interpretati come il sintomo di qualcosa d’inespresso e inesprimibile. E 'noto che, contrariamente al mito che la maternità diffonde, ci sono molte madri che hanno bisogno di tempo per la cura per i loro bambini e per adattarsi a una nuova vita alla quale non erano preparate. Per altre ragioni è perfettamente possibile che qualcuna si separi emotivamente dai suoi figli, quando questi diventano adulti. I figli non si vogliono per istinto, questa cosa non esiste. I figli, sì è solito amarli, ma a volte non così velocemente come si dice, a volte non tanto quanto dovremmo, a volte l'amore cambia e s’indebolisce nel tempo e, infine, a volte anche amandoli moltissimo, si può pensare che la vita sarebbe stata migliore se avessimo preso la decisione di non averli, se qualcuno avesse effettivamente spiegato veramente cosa significano, se avessimo avuto accesso a una pluralità di discorsi, non solo a uno. E tutti questi sentimenti, perfettamente umani e così normali, come gli opposti, non trasformano queste donne in cattive persone o in sub-umane. Non troviamo però nessun discorso, nessun personaggio, nessuna storia, che offra non solo immagini positive, ma in qualche modo neutre di una qualche donna così. Viceversa, sappiamo già che ci sono più discorsi e condizionamenti che portano a glorificare la maternità e sappiamo che questi discorsi pro-maternità si danno da tutti gli spazi ideologici femministi, che apparentemente offrono nuove visioni della maternità, che finiscono, con l’essere  viceversa,sempre le stesse: visione mistiche e volontaristiche che cercano di spogliare la maternità dei suoi vecchi significati semplicemente perché si desidera essere madri. Infatti, è possibile che il discorso maggioritario in questo momento dentro il femminismo sia la neo-maternità romanzata che, in realtà, non è mai esistita prima, ma che è presentata come un recupero dell’antico e del più naturale. Molte femministe stanno scoprendo ora il piacere della maternità e lo fanno come se fosse qualcosa di nuovo, come se non avessimo addosso centinaia di migliaia di anni di maternità. Tutto si vende con la freschezza e il gusto del nuovo: il parto naturale, l’allattamento e i piaceri della maternità intensiva riappaiono in tutti gli ambienti e lo fanno con la forza della conversione. In più, si presentano nuove situazioni come la maternità lesbica o la maternità mediante tecniche d’inseminazione come atti di ribellione contro il patriarcato, lasciando da parte ciò che ha d’impegno consumistico di affiliazione capitalistica, più di conferma che di dissenso del ruolo materno tradizionale.
Qualsiasi occulto discorso ha qualcosa che vale la pena portare alla luce; in questo caso, capire perché non si rap-presenti la non maternità come un’uguale alternativa arricchente quanto l’altra. Penso, quindi, che dovremmo riflettere di più su un'istituzione materna iscritta adesso nel consumo di massa e nell’essenzialismo naturalista: dovremmo rivendicare almeno uno spazio di riflessione sulla non-maternità. Ancora di più, adesso,perché siamo in un momento in cui il discorso dominante è rafforzato attraverso la ridefinizione della maternità medianti interventi che sembrano meno patriarcali, ma che non mettono in discussione l’essenziale: il fatto che la donna possa avere figli non spiega né giustifica, che voglia averli. Né tanto meno che averli sia buono, meglio o addirittura auspicabile.

Pikara

(traduzione di Lia Di Peri)


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