di Brigitte Vasallo
Il tormentone estivo sono notizie che appaiono, sovra-dimensionate in momenti di scarsa attività giornalistica nei quali non c’è bisogno di riempire giornali e riviste. Notizie che scompaiono come una tempesta, a fine estate, quando i "gravi" problemi ritornano a riempire le pagine.
Quest’anno il tormentone è stato particolarmente velenoso dato che ha messo al centro delle battute internazionali i corpi e le vite delle compagne musulmane che usano fare il bagno con un indumento intero, chiamato impropriamente “burkini”.
Dal momento del divieto di usare questo indumento da parte di alcuni sindaci conservatori francesi e la conseguente espulsione dallo spazio pubblico di alcune donne, il rumore assordante ha assaltato la scena.
A ciascuno di noi fanno male certe cose: a me fa male il femminismo. E, nello Stato spagnolo, gran parte di femminismi sono rimasti impigliati nell’alimentare il tormentone con dibattiti fuori luogo, invece di collegarsi con le compagne aggredite. Siamo state così preoccupate nel tastare il polso al “problema”, che lo abbiamo perso di vista completamente e il dibattito femminista per la maggior parte non si è centrato sulla aggressione né sulle libertà ma sullo abbigliamento. La sempre eterna ossessione per il velo. Perché c’è costato tanto, in generale, denunciare l'aggressione senza ma e senza se e senza dubbi? Perché abbiamo speso molte ore ad analizzare le aggredite e i loro corpi? Cercherò di spiegare il motivo per cui il dibattito è parte dell'aggressione stessa.
Quest’anno il tormentone è stato particolarmente velenoso dato che ha messo al centro delle battute internazionali i corpi e le vite delle compagne musulmane che usano fare il bagno con un indumento intero, chiamato impropriamente “burkini”.
Dal momento del divieto di usare questo indumento da parte di alcuni sindaci conservatori francesi e la conseguente espulsione dallo spazio pubblico di alcune donne, il rumore assordante ha assaltato la scena.
A ciascuno di noi fanno male certe cose: a me fa male il femminismo. E, nello Stato spagnolo, gran parte di femminismi sono rimasti impigliati nell’alimentare il tormentone con dibattiti fuori luogo, invece di collegarsi con le compagne aggredite. Siamo state così preoccupate nel tastare il polso al “problema”, che lo abbiamo perso di vista completamente e il dibattito femminista per la maggior parte non si è centrato sulla aggressione né sulle libertà ma sullo abbigliamento. La sempre eterna ossessione per il velo. Perché c’è costato tanto, in generale, denunciare l'aggressione senza ma e senza se e senza dubbi? Perché abbiamo speso molte ore ad analizzare le aggredite e i loro corpi? Cercherò di spiegare il motivo per cui il dibattito è parte dell'aggressione stessa.
La responsabilità della propria ignoranza
Chiariamo fin dall'inizio: il cosiddetto burkini è un hijab; è un indumento che usano sulla spiaggia, le compagne che portano il velo nelle strade. Tutte le analisi intelligenti e iper-ventilate, equiparando il nome commerciale burkini con il burqa o con un niqab sono analisi semplicemente ridicole. Si sa che agitare le acque favorisce i pescatori, così ciascuno ha usato la tecnica del caos concettuale come meglio poteva. E noi femministe che spesso abbiamo rivendicato che gli uomini si formino nel femminismo, che tante volte abbiamo affermato che non è nostra responsabilità educarli, ci siamo perse in cose così semplici come distinguere un hijab, burka e niqab, con tutto il peso politico che tali denominazioni comportano e con tutta la confusione generata dalla nostra ignoranza. Non possiamo sapere tutto, certamente. Non possiamo però, opinare su cose, che non abbiamo neppure guardato su un dizionario.
Perché non possiamo opinare!
Lo ribadisco: in un contesto di disuguaglianza e di violenza, noi non- musulmane non dobbiamo continuare a mettere in discussione le strategie delle musulmane per sopravvivere a questa disuguaglianza e violenza. Nessuno ci sta chiedendo la nostra opinione ma stiamo solo esercitando il nostro potere per esigere che le altre si giustifichino di fronte e a noi, che ci chiedano il permesso, per così poter scegliere, decretare, se glielo concediamo o no.
Eppure, noi siamo le prime a esigere che gli uomini rivedano i loro privilegi, prima di discutere sulle strategie delle donne. Come ci suona quando davanti a una aggressione machista, alcuni uomini iniziano a discutere sui vestiti delle donne, se la gonna era corta o, al contrario, se così “truccata”, è normale essere aggredita?
Dire che non dovremmo mettere in discussione o dibattere sul velo o sul niqab non è una questione di raffinatezza attivista, come direbbe Itziar Ziga. Al contrario, i dibattiti fanno parte della violenza razzista che esercitiamo e, in questo caso particolare, penso che sia stata la vera e propria aggressione, di là dall’intervento effettivo della polizia sulle spiagge. Le discussioni sulle reti sociali, assordanti, hanno dimostrato ancora una volta chi pensiamo sia il soggetto e chi l’oggetto, quali voci non abbiano nessun valore, quali donne non riconosciamo come donne ma come mere sagome inerti di uomini manipolatori. Se il femminismo ci ha insegnato che le donne siamo soggetti della nostra vita e non solo appendici, non capisco allora cosa ci abbia insegnato.
Eppure, noi siamo le prime a esigere che gli uomini rivedano i loro privilegi, prima di discutere sulle strategie delle donne. Come ci suona quando davanti a una aggressione machista, alcuni uomini iniziano a discutere sui vestiti delle donne, se la gonna era corta o, al contrario, se così “truccata”, è normale essere aggredita?
Dire che non dovremmo mettere in discussione o dibattere sul velo o sul niqab non è una questione di raffinatezza attivista, come direbbe Itziar Ziga. Al contrario, i dibattiti fanno parte della violenza razzista che esercitiamo e, in questo caso particolare, penso che sia stata la vera e propria aggressione, di là dall’intervento effettivo della polizia sulle spiagge. Le discussioni sulle reti sociali, assordanti, hanno dimostrato ancora una volta chi pensiamo sia il soggetto e chi l’oggetto, quali voci non abbiano nessun valore, quali donne non riconosciamo come donne ma come mere sagome inerti di uomini manipolatori. Se il femminismo ci ha insegnato che le donne siamo soggetti della nostra vita e non solo appendici, non capisco allora cosa ci abbia insegnato.
Il problema non è il velo: è il razzismo.
Uso il termine “islamofobia di genere” perché è stato coniato e sviluppato dalla femminista musulmana Jasmin Zine, tra le altre. Un termine, quindi, che nasce dalla comunità identificata e che molte donne musulmane stanno utilizzando per auto-identificare la loro oppressione. Con questo termine si punta alla intersezione tra la islamofobia e il machismo. La intersezionalità, più nominata che applicata, nasce dal pensiero collettivo femminista nero e lesbico Combahee River Collective per analizzare come le oppressioni non si sommino, semplicemente, ma interagiscono tra di loro. Cioè: l’islamofobia di genere non è da un lato machismo e dall’altro, islamofobia ma un asse di discriminazione e violenza specifica, derivante da un incrocio tra i due. Non si può analizzare, quindi, la situazione delle donne musulmane in Europa, puntando solo sul machismo (o una forma di machismo), perché sono anche in una situazione di violenza razzista (l’islamofobia è una forma di razzismo, come hanno sviluppato ampiamente da persone come Ángeles Ramirez o Ramón Grosfoguel).
Noi femministe bianche non soltanto siamo donne ma siamo anche bianche. Come dice Lucas Platero, tutte le identità sono intersezionali, in modo che quando analizziamo l'hijab (o il costume da bagno per tutto il corpo) non lo facciamo solamente come donne ma agisce nella analisi anche il fatto di essere bianche (e intendo in questo caso, la parola bianca come non –musulmana). Ed è a mio parere la parte essenziale, perché punta alla violenza che esercitiamo ma che potremmo fermare immediatamente. Ma che non fermiamo.
Lo sguardo sul hijab dei femminismi bianchi ha parallelismi con la lotta per l’aborto negli Stati Uniti negli anni '70, una lotta guidata dalle bianche, che ebbe poco impatto sulle donne nere e portoricane, secondo quanto racconta Angela Davis in Donne, Razza, Classe e che erano tuttavia, quelle che subivano di più gli aborti illegali e, di conseguenza, sarebbero dovuto essere quelle più interessate alla legalizzazione. La questione era radicata nel fatto che il femminismo bianco era focalizzato sul diritto all’aborto mentre le donne nere e portoricane, che provenivano da una storia di schiavitù e di sterilizzazione forzata, non rivendicavano il diritto ad abortire ma al controllo delle nascite, cosa che includeva la resistenza e la resistenza a pratiche eugenetiche.
Nei femminismi egemonici ci riempiamo la bocca con le libertà ma facciamo acqua al primo costume che incrociamo. Perché continuiamo a essere ancorate nella universalizzazione della sua esperienza e, un’ esperienza universale del femminismo bianco, è la nudità come pratica di libertà di fronte a un ambiente che ci imponeva di vestirci.
Però, cosa succede quando questa nudità diventa imposizione? E inoltre, cosa accade quando questa imposizione comporta una restrizione identitaria? Nel documentario di Al Nisa, alcune compagne lesbiche e musulmane spiegano che l'hijab è per loro una forma molto importante di visibilità, come passeggiare mano nella mano con la propria ragazza.
Non possiamo discutere sulle decisioni da soggettività ed esperienze diverse dalle nostre. Tranne quando parte della oppressione su queste soggettività, la costruisce precisamente i nostri pregiudizi. Se qualcosa ci può unire, è il diritto al proprio corpo e che ognuno lo definisca nel contesto che gli è più appropriato alla sua soggettività e alle sue esperienze. Difendere però la libertà come pratica e non difendere un oggetto contenitore di questa pratica di libertà è complicato. Poiché il risultato della pratica non sempre piace. Quindi preferiamo sacrificare la libertà, anche se mascheriamo questo sacrificio e finiamo con il nominarlo libertà. E, di fatto, lo è. Però la nostra. Solo la nostra.
In questi “altri” corpi interagiscono oppressioni che noi bianche non viviamo. Come spiega Jasmin Zine, nell’era post 11 settembre “ la islamofobia di genere ha rivitalizzato sia la retorica e le rappresentazioni di donne ritardate, oppresse e politicamente immature che hanno bisogno di essere liberate e riscattate attraverso degli interventi imperialisti come anche i pregiudizi dello estremismo religioso e i discorsi puritani che legittimano narrative limitanti della femminilità islamica e ostacola i diritti umani e le libertà di queste donne”. Così davanti a un caso eclatante di islamofobia di genere come è stata la espulsione di alcune donne musulmane dalle spiagge, le analisi del femminismo bianco si concentrano ossessivamente sulla denuncia del “patriarcato musulmano” e non sulla polizia bianca, rappresentando le donne musulmane come vittime che non capiscono sicuramente la propria situazione. Queste analisi che mettono a tacere il fatto che le musulmane in Europa sono sotto la violenza razzista non si situano in un luogo contrario al patriarcato che pretendono di denunciare ma sono parte della stessa oppressione intersezionale.
Così il tormentone di questa estate è stato un eccessivo esercizio di purplewashing: uomini chiaramente machisti e anche donne femministe usando una presunta preoccupazione per le donne hanno legittimato la esclusione e la disumanizzazione di quelle stesse donne. Gli articoli che abbiamo visto circolare questa estate, utilizzando contro le musulmane le analisi delle femministe arabe laiche decontestualizzate - dando per scontato che non le conoscono e ci sarebbe da mostrargliele o assumendo che quelle femministe non sono compagne di lotta – sono parte dell’infantilizzazione razzista e machista.Non aggiunte ma incrociate.
Noi femministe bianche non soltanto siamo donne ma siamo anche bianche. Come dice Lucas Platero, tutte le identità sono intersezionali, in modo che quando analizziamo l'hijab (o il costume da bagno per tutto il corpo) non lo facciamo solamente come donne ma agisce nella analisi anche il fatto di essere bianche (e intendo in questo caso, la parola bianca come non –musulmana). Ed è a mio parere la parte essenziale, perché punta alla violenza che esercitiamo ma che potremmo fermare immediatamente. Ma che non fermiamo.
Lo sguardo sul hijab dei femminismi bianchi ha parallelismi con la lotta per l’aborto negli Stati Uniti negli anni '70, una lotta guidata dalle bianche, che ebbe poco impatto sulle donne nere e portoricane, secondo quanto racconta Angela Davis in Donne, Razza, Classe e che erano tuttavia, quelle che subivano di più gli aborti illegali e, di conseguenza, sarebbero dovuto essere quelle più interessate alla legalizzazione. La questione era radicata nel fatto che il femminismo bianco era focalizzato sul diritto all’aborto mentre le donne nere e portoricane, che provenivano da una storia di schiavitù e di sterilizzazione forzata, non rivendicavano il diritto ad abortire ma al controllo delle nascite, cosa che includeva la resistenza e la resistenza a pratiche eugenetiche.
Nei femminismi egemonici ci riempiamo la bocca con le libertà ma facciamo acqua al primo costume che incrociamo. Perché continuiamo a essere ancorate nella universalizzazione della sua esperienza e, un’ esperienza universale del femminismo bianco, è la nudità come pratica di libertà di fronte a un ambiente che ci imponeva di vestirci.
Però, cosa succede quando questa nudità diventa imposizione? E inoltre, cosa accade quando questa imposizione comporta una restrizione identitaria? Nel documentario di Al Nisa, alcune compagne lesbiche e musulmane spiegano che l'hijab è per loro una forma molto importante di visibilità, come passeggiare mano nella mano con la propria ragazza.
Non possiamo discutere sulle decisioni da soggettività ed esperienze diverse dalle nostre. Tranne quando parte della oppressione su queste soggettività, la costruisce precisamente i nostri pregiudizi. Se qualcosa ci può unire, è il diritto al proprio corpo e che ognuno lo definisca nel contesto che gli è più appropriato alla sua soggettività e alle sue esperienze. Difendere però la libertà come pratica e non difendere un oggetto contenitore di questa pratica di libertà è complicato. Poiché il risultato della pratica non sempre piace. Quindi preferiamo sacrificare la libertà, anche se mascheriamo questo sacrificio e finiamo con il nominarlo libertà. E, di fatto, lo è. Però la nostra. Solo la nostra.
In questi “altri” corpi interagiscono oppressioni che noi bianche non viviamo. Come spiega Jasmin Zine, nell’era post 11 settembre “ la islamofobia di genere ha rivitalizzato sia la retorica e le rappresentazioni di donne ritardate, oppresse e politicamente immature che hanno bisogno di essere liberate e riscattate attraverso degli interventi imperialisti come anche i pregiudizi dello estremismo religioso e i discorsi puritani che legittimano narrative limitanti della femminilità islamica e ostacola i diritti umani e le libertà di queste donne”. Così davanti a un caso eclatante di islamofobia di genere come è stata la espulsione di alcune donne musulmane dalle spiagge, le analisi del femminismo bianco si concentrano ossessivamente sulla denuncia del “patriarcato musulmano” e non sulla polizia bianca, rappresentando le donne musulmane come vittime che non capiscono sicuramente la propria situazione. Queste analisi che mettono a tacere il fatto che le musulmane in Europa sono sotto la violenza razzista non si situano in un luogo contrario al patriarcato che pretendono di denunciare ma sono parte della stessa oppressione intersezionale.
Così il tormentone di questa estate è stato un eccessivo esercizio di purplewashing: uomini chiaramente machisti e anche donne femministe usando una presunta preoccupazione per le donne hanno legittimato la esclusione e la disumanizzazione di quelle stesse donne. Gli articoli che abbiamo visto circolare questa estate, utilizzando contro le musulmane le analisi delle femministe arabe laiche decontestualizzate - dando per scontato che non le conoscono e ci sarebbe da mostrargliele o assumendo che quelle femministe non sono compagne di lotta – sono parte dell’infantilizzazione razzista e machista.Non aggiunte ma incrociate.
Contro il divieto... ma
C'è una linea discorsiva che riaffiora ogni volta che il gruppo di donne musulmane in Europa ricevono un'aggressione, come lo sono le leggi restrittive dirette contro di loro. Il discorso consiste nel demonizzarle, trasformarle in minaccia latente e, infine, fare in modo che le aggredite siano potenziali aggressori contro quelle che le vogliono proteggere.
La prima parte di questo discorso usa la comparazione con l’Arabia Saudita, Iran o Afghanistan. La cosa interessante di questo movimento dialettico è che compara a soggetti subalterni in Europa, donne e razzializzati, in quanto musulmane (e non parliamo ella questione di classe o di posizione amministrativa a non essere omogenee nella comunità) e, lungi dal comparare la loro situazione con altri soggetti subalterni in Arabia Saudita, Iran o Afghanistan, le compariamo con il potere esistente in questi luoghi. Vale a dire, ai nostri occhi, sotto lo sguardo dell’Occidente, come direbbe Mohanty, le musulmane in Europa, non sono esse stesse musulmane sotto i regimi teocratici, ma diventano come per magia legislatori uomini, che ostentano il potere. La creatrice (australiana) del burkini avrebbe posto il nome commerciale in modo simpatico. Non ha tenuto conto, però della ignoranza europea, capace di confondere un burqa afghano con questo pezzo di lycra dai colori vivaci, che è un incubo per qualsiasi estremista religioso che si rispetti. E, di conseguenza, abbiamo la demonizzazione consumata: le compagne che scendono verso la spiaggia con il corrispondente costume sono state chiamate wahhabite, salafite, terroriste e non so che altro. Anche da persone che hanno detto che non hanno problemi con il velo: ma che questo era troppo. Con il costume da bagno abbiamo toppato. Abbiamo concesso il “permesso” per il velo ma non la libertà sul proprio corpo.
Una volta che i termini wahabita e salafita sono circolati, come sfacciati sinonimi di musulmano e musulmana sono suonati tutti gli allarmi e le compagne espulse dallo spazio pubblico sono diventate una minaccia latente, che nonostante la bruttezza di quelle immagini della polizia che le denuda a Cannes, devono essere controllate dallo Stato, perché rappresentano una minaccia per le libertà di tutte (e lo stato patriarcale, a quanto pare, è improvvisamente il garante della libertà). E di nuovo al punto di partenza.
La lotta per le libertà in Arabia Saudita, Iran, Afghanistan, Francia o Germania sono la stessa lotta, con obiettivi contestuali diversi. La libertà è abortire o tenere i figli? Dipende poi da se ti obbligano o tenerli o ti sterilizzano perché tu non li abbia. La libertà è velarsi o denudarsi? Perché di nuovo, la libertà è poter prendere le proprie decisioni, in un senso o in un altro. E quello che facciamo dai femminismi è creare spazi di resistenza ai poteri dove le possibilità di scelta si vadano ampliando.
Questa forma di disumanizzazione, secondo la quale le musulmane smettono di essere persone per diventare oggetto di analisi, di legislazione, di dibattito sulle reti e di opinione, congelate nel tempo, nella speranza che “noi” riusciamo a capire la questione, e così concediamo loro lo status di umanità o no, è la struttura base del razzismo, fissata da Frantz Fanon già negli anni ’50.
Poco importa che questa volta il razzismo è nascosto sotto lo slogan "tutte le religioni sono uguali". La frase in sé non ha consistenza alcuna. Che cosa hanno in comune lo zoroastrismo e il culto yoruba? Una frase del genere risponde solo alla universalizzazione della singola esperienza, che è caratteristica dello etnocentrismo e della colonialità, così come del razzismo culturalista, che definisce la cultura Occidentale non come una deriva culturale particolare, tra le molte altre, bensì come la migliore. E tra movimenti di resistenza europei (femminismi, comunismi, l'anarchismi, ecc) l’ateismo è costitutivo e centrale. Un ateismo che non ha saputo distinguere tra le istituzioni del potere religioso, la filosofia e la spiritualità delle persone e che finisce con lo uguagliare il vescovo Cañizares con Malcom X o con Muhammad Ali, la teologia della liberazione cristiana con Daesh. Sono tutti uguali? Così, con il pretesto di combattere tutte le "religioni" ciò che è promosso è una lotta di civiltà nel più puro stile di Huntington, una versione contemporanea dei mori e dei cristiani. La dialettica della lotta contro il terrorismo di Bush, ha intrappolato anche e molto chiaramente, i movimenti che si credono anti-imperialisti. Se ci sono movimenti occidentali che considerano che la lotta contro quello che essi intendono per religione, sia una loro priorità vada da sé che debbano formarsi molto in religioni e molto in colonialismo e razzismo, per fare davvero una lotta pulita e giusta con le persone. E dovranno essere molto attenti alle articolazioni e ai privilegi che ci segnalano costantemente, mentre stiamo guardando dall’altro lato.
La prima parte di questo discorso usa la comparazione con l’Arabia Saudita, Iran o Afghanistan. La cosa interessante di questo movimento dialettico è che compara a soggetti subalterni in Europa, donne e razzializzati, in quanto musulmane (e non parliamo ella questione di classe o di posizione amministrativa a non essere omogenee nella comunità) e, lungi dal comparare la loro situazione con altri soggetti subalterni in Arabia Saudita, Iran o Afghanistan, le compariamo con il potere esistente in questi luoghi. Vale a dire, ai nostri occhi, sotto lo sguardo dell’Occidente, come direbbe Mohanty, le musulmane in Europa, non sono esse stesse musulmane sotto i regimi teocratici, ma diventano come per magia legislatori uomini, che ostentano il potere. La creatrice (australiana) del burkini avrebbe posto il nome commerciale in modo simpatico. Non ha tenuto conto, però della ignoranza europea, capace di confondere un burqa afghano con questo pezzo di lycra dai colori vivaci, che è un incubo per qualsiasi estremista religioso che si rispetti. E, di conseguenza, abbiamo la demonizzazione consumata: le compagne che scendono verso la spiaggia con il corrispondente costume sono state chiamate wahhabite, salafite, terroriste e non so che altro. Anche da persone che hanno detto che non hanno problemi con il velo: ma che questo era troppo. Con il costume da bagno abbiamo toppato. Abbiamo concesso il “permesso” per il velo ma non la libertà sul proprio corpo.
Una volta che i termini wahabita e salafita sono circolati, come sfacciati sinonimi di musulmano e musulmana sono suonati tutti gli allarmi e le compagne espulse dallo spazio pubblico sono diventate una minaccia latente, che nonostante la bruttezza di quelle immagini della polizia che le denuda a Cannes, devono essere controllate dallo Stato, perché rappresentano una minaccia per le libertà di tutte (e lo stato patriarcale, a quanto pare, è improvvisamente il garante della libertà). E di nuovo al punto di partenza.
La lotta per le libertà in Arabia Saudita, Iran, Afghanistan, Francia o Germania sono la stessa lotta, con obiettivi contestuali diversi. La libertà è abortire o tenere i figli? Dipende poi da se ti obbligano o tenerli o ti sterilizzano perché tu non li abbia. La libertà è velarsi o denudarsi? Perché di nuovo, la libertà è poter prendere le proprie decisioni, in un senso o in un altro. E quello che facciamo dai femminismi è creare spazi di resistenza ai poteri dove le possibilità di scelta si vadano ampliando.
Questa forma di disumanizzazione, secondo la quale le musulmane smettono di essere persone per diventare oggetto di analisi, di legislazione, di dibattito sulle reti e di opinione, congelate nel tempo, nella speranza che “noi” riusciamo a capire la questione, e così concediamo loro lo status di umanità o no, è la struttura base del razzismo, fissata da Frantz Fanon già negli anni ’50.
Poco importa che questa volta il razzismo è nascosto sotto lo slogan "tutte le religioni sono uguali". La frase in sé non ha consistenza alcuna. Che cosa hanno in comune lo zoroastrismo e il culto yoruba? Una frase del genere risponde solo alla universalizzazione della singola esperienza, che è caratteristica dello etnocentrismo e della colonialità, così come del razzismo culturalista, che definisce la cultura Occidentale non come una deriva culturale particolare, tra le molte altre, bensì come la migliore. E tra movimenti di resistenza europei (femminismi, comunismi, l'anarchismi, ecc) l’ateismo è costitutivo e centrale. Un ateismo che non ha saputo distinguere tra le istituzioni del potere religioso, la filosofia e la spiritualità delle persone e che finisce con lo uguagliare il vescovo Cañizares con Malcom X o con Muhammad Ali, la teologia della liberazione cristiana con Daesh. Sono tutti uguali? Così, con il pretesto di combattere tutte le "religioni" ciò che è promosso è una lotta di civiltà nel più puro stile di Huntington, una versione contemporanea dei mori e dei cristiani. La dialettica della lotta contro il terrorismo di Bush, ha intrappolato anche e molto chiaramente, i movimenti che si credono anti-imperialisti. Se ci sono movimenti occidentali che considerano che la lotta contro quello che essi intendono per religione, sia una loro priorità vada da sé che debbano formarsi molto in religioni e molto in colonialismo e razzismo, per fare davvero una lotta pulita e giusta con le persone. E dovranno essere molto attenti alle articolazioni e ai privilegi che ci segnalano costantemente, mentre stiamo guardando dall’altro lato.
Sopra il femminismo islamico
In questo spazio tanto infinitamente scomodo e così attraversato dalla violenza, che è la intersezione tra la islamofobia e le letture patriarcali e colonialiste dello Islam, si situano una serie di movimenti: i femminismi islamici, la prospettiva de coloniale, l’islam queer…
Ho sempre rifiutato di parlare, scrivere o insegnare sopra di essi, poiché è parte del privilegio bianco usurpare tranquillamente il lavoro dei /delle compagni /compagne: per il razzismo è sempre più credibile ascoltare una atea che puntare alla conoscenza data. Lo spazio per spiegare il suo lavoro è per le persone che stanno producendo conoscenza.
Il mio spazio, se è qualcosa, è combattere la islamofobia tra persone che come me, sono state costruite in essa. Tuttavia, a forza di non parlare si è generata una bufala, che ho necessità per una volta di chiarire. Il movimento femminista islamico non è un movimento univoco né uniforme. In realtà, dobbiamo chiamarlo al plurale: femminismi islamici. Ed è un movimento che si verifica in tutto il mondo (l'Islam non è un paese): ci sono femministe islamiche europee, americane dal nord al sud, arabe, indonesiane, sudafricane, nigeriane. E le loro opinioni sul hijab sono molteplici. I femminismi islamici hanno le loro mistiche della femminilità, è chiaro, però è qualcosa che abbiamo anche nel femminismo bianco e nessuno lo considera invalidante. Questa dicotomia secondo la quale le femministe laiche arabi sono contro l'hijab e femministe islamiche sono favorevoli è falsa e interessata: femministe islamiche come Amina Wadud, Asma Barlas, Leila Ahmed o Azzizah Al Hibri, non lo considerano una prerogativa religiosa. Nel documentario The Noble Struggle di Amina Wadud, questa spiega, mentre la pettinano in un salone di bellezza, che le sue antenate, portate come schiave in America, non potevano scegliere come vestirsi e sono state spesso costrette a comparire nude. Cosicché per una nera statunitense coprirsi era per lei una rivendicazione. L'hijab, spiega, la rende riconoscibile come musulmana e ciò le piace ma le dà fastidio non essere riconosciuta come afroamericana. Così alterna: si copre in occasioni più ufficiali e si scopre durante la giornata. Nulla di più.
In Red Musulmanas, dove ho la fortuna di partecipare da anni, molte compagne non lo indossano e altre, sì. E questa questione non crea alcun problema. Però tutte sono a favore della libertà delle donne in tutti gli spazi dove questa libertà si vuole restringere.
Non “difendo” il femminismo islamico, l’islam queer o l’islam de coloniale: sono movimenti che non ne hanno bisogno e in quanto non sono musulmana, anche se imparo moltissimo da essi. Ciò che difendo è la loro possibilità di esserci e li considero necessari per tante altre persone. Ciò di cui c'è bisogno è la loro esistenza. Perché io penso femminista e credo che il femminismo sia un movimento che liberi, in qualsiasi luogo si iscriva, perché il femminismo mi ha dato la vita e mi ha fatto capire il mondo; perché mi ha insegnato ad articolarmi e mi ha insegnato il desiderio di articolarmi con altre donne, femministe o no, con altre persone femminista, donne o no. Perché mi ha fatto capire le mie ferite e anche le ferite altrui a partire dalle mie. E perché ho bisogno di un mondo dove sia possibile essere differenti e dove la differenza non sia un conflitto ma un luogo di scoperta, di apprendimento e di gioia.
Nel femminismo egemonico siamo molto più preoccupati per il relativismo culturale che per il razzismo. Abituate al privilegio di opinare su tutto e a opinare dalla universalità, ci sembra che stare zitte sia una dimostrazione di debolezza e codardia. Ma è una trappola. Se c'è qualche viltà, è quello di nasconderci in questo privilegio per infantilizzare, umiliare, giustificare violenze ed escludere le altre. È urgente lasciare discorsi inutili, mentre le compagne stanno soffrendo una aggressione razzista e machista e schierarci a loro favore, perché esse ne hanno bisogno.
Perché contrapporsi al proprio privilegio non ha nulla di relativismo: è ciò che io chiamo una pratica femminista di primo ordine.
Ho sempre rifiutato di parlare, scrivere o insegnare sopra di essi, poiché è parte del privilegio bianco usurpare tranquillamente il lavoro dei /delle compagni /compagne: per il razzismo è sempre più credibile ascoltare una atea che puntare alla conoscenza data. Lo spazio per spiegare il suo lavoro è per le persone che stanno producendo conoscenza.
Il mio spazio, se è qualcosa, è combattere la islamofobia tra persone che come me, sono state costruite in essa. Tuttavia, a forza di non parlare si è generata una bufala, che ho necessità per una volta di chiarire. Il movimento femminista islamico non è un movimento univoco né uniforme. In realtà, dobbiamo chiamarlo al plurale: femminismi islamici. Ed è un movimento che si verifica in tutto il mondo (l'Islam non è un paese): ci sono femministe islamiche europee, americane dal nord al sud, arabe, indonesiane, sudafricane, nigeriane. E le loro opinioni sul hijab sono molteplici. I femminismi islamici hanno le loro mistiche della femminilità, è chiaro, però è qualcosa che abbiamo anche nel femminismo bianco e nessuno lo considera invalidante. Questa dicotomia secondo la quale le femministe laiche arabi sono contro l'hijab e femministe islamiche sono favorevoli è falsa e interessata: femministe islamiche come Amina Wadud, Asma Barlas, Leila Ahmed o Azzizah Al Hibri, non lo considerano una prerogativa religiosa. Nel documentario The Noble Struggle di Amina Wadud, questa spiega, mentre la pettinano in un salone di bellezza, che le sue antenate, portate come schiave in America, non potevano scegliere come vestirsi e sono state spesso costrette a comparire nude. Cosicché per una nera statunitense coprirsi era per lei una rivendicazione. L'hijab, spiega, la rende riconoscibile come musulmana e ciò le piace ma le dà fastidio non essere riconosciuta come afroamericana. Così alterna: si copre in occasioni più ufficiali e si scopre durante la giornata. Nulla di più.
In Red Musulmanas, dove ho la fortuna di partecipare da anni, molte compagne non lo indossano e altre, sì. E questa questione non crea alcun problema. Però tutte sono a favore della libertà delle donne in tutti gli spazi dove questa libertà si vuole restringere.
Non “difendo” il femminismo islamico, l’islam queer o l’islam de coloniale: sono movimenti che non ne hanno bisogno e in quanto non sono musulmana, anche se imparo moltissimo da essi. Ciò che difendo è la loro possibilità di esserci e li considero necessari per tante altre persone. Ciò di cui c'è bisogno è la loro esistenza. Perché io penso femminista e credo che il femminismo sia un movimento che liberi, in qualsiasi luogo si iscriva, perché il femminismo mi ha dato la vita e mi ha fatto capire il mondo; perché mi ha insegnato ad articolarmi e mi ha insegnato il desiderio di articolarmi con altre donne, femministe o no, con altre persone femminista, donne o no. Perché mi ha fatto capire le mie ferite e anche le ferite altrui a partire dalle mie. E perché ho bisogno di un mondo dove sia possibile essere differenti e dove la differenza non sia un conflitto ma un luogo di scoperta, di apprendimento e di gioia.
Nel femminismo egemonico siamo molto più preoccupati per il relativismo culturale che per il razzismo. Abituate al privilegio di opinare su tutto e a opinare dalla universalità, ci sembra che stare zitte sia una dimostrazione di debolezza e codardia. Ma è una trappola. Se c'è qualche viltà, è quello di nasconderci in questo privilegio per infantilizzare, umiliare, giustificare violenze ed escludere le altre. È urgente lasciare discorsi inutili, mentre le compagne stanno soffrendo una aggressione razzista e machista e schierarci a loro favore, perché esse ne hanno bisogno.
Perché contrapporsi al proprio privilegio non ha nulla di relativismo: è ciò che io chiamo una pratica femminista di primo ordine.
traduzione di Lia Di Peri
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