lunedì 30 gennaio 2012

Medea, un mito patriarcale

" La Sindrome di Medea" è l'ultima trovata, in ordine di tempo, del sessismo.
Cerchiamo allora di ri-percorrere la storia di Medea  attraverso lo sguardo di una scrittrice da poco scomparsa, Christa Wolf, che ricostruisce la  vicenda svelando i risvolti patriarcali e gli stereotipi di genere tramandati nei secoli.
Medea

di Christa Wolf

(Postafazione di Anna Chiarloni)

Medea non è una fattucchiera. E tanto meno un'infanticida. Questo, in sintesi, il senso del romanzo di Christa Wolf. Un'interpretazione del tutto contro corrente in quanto da Euripide a Heiner Muller il mito di Medea rappresenta l'esito di un tragico scontro tra il mondo arcaico e instintuale della Colchide e quello civile e raziocinante dei Greci.

Questo perché la storia ci è nota come ci è stata tramandata dal drammaturgo ateniese. Un intreccio di amore, gelosia e tradimento: ingannando il padre e il fratello, Medea aiuta Giasone e gli Argonauti a riconquistare il vello d'oro e fugge con lui a Corinto. Qui, abbandonata dal marito che medita di sposare Glauce per ottenere il trono di Creonte, Medea incendia la città, provoca la morte della rivale e uccide i figlioletti avuti da Giasone.

Ci sono state, è vero altre interpretazioni. Rispetto al testo di Euripide, teso ad affermare la superiorità della ratio greca sul tenebroso mondo dei barbari, il mito è stato riletto, soprattutto a partire dal romanticismo, in funzione di un crescente interesse per la sfera del sentimento, accompagnato - è il caso di Grillparzer (1821) - da un certo scetticismo nei confronti della techne ellenica, sentita come espressione di una cinica volontà di dominio. Anche nel film di Pasolini (Medea, 1969) il furto del vello d'oro diventa simbolol della moderna rapina nei confronti di un mondo primigenio e inerme : Giasone è la "mens momentanea", il tecnico dell'oggi circoscritto nell'opaca prassi razionale. Medea rappresenta invece il tumulto del cuore emergente da un mondo integro, che ancora conosce la dimensione metafisica.
Malgrado le diverse impostazioni, la lettura del mito corre fin qui nell'alveo prestabilito da Euripide che sfocia nell'infanticidio. Indubbiamente, al di là del doppio tradimento - prima di Medea verso le sue genti, poi di Giasone verso una moglie che gli intralcia la carriera - il dato sconcertante resta quell'atroce violenza perpetrata dalla barbara della Colchide sulla propria prole. Ora è proprio questo che Christa Wolf mette in discussione.

Ripercorrendo a ritroso i variegati sentieri del mito fino alle fonti precedenti alla versione euripidea, la scrittrice rintraccia una figura diversa : una donna travagliata sì dall'amore, ma ancor più dall'incapacità degli abitanti di Corinto di integrare una cultura come quella della Colchide, per sua natura non incline alla violenza. Non un'infanticida, dunque,al contrario una donna forte e generosa, depositaria di ub remoto sapere del corpo e della terra, che una società intollerante emargina e annienta negli affetti fino a lapidarle i figli.

La Wolf rielabora frammenti di un mito provenienti da fonti diverse, attestate soprattutto da Apollonio Rodio. Infatti, che Euripide avesse manipolato la vicenda per assolvere gli abitanti di Corinto - colpevoli di aver massacrato i figli di Medea - emerge anche dalla storiografia antica, onorario compreso : quindici talenti d'argento, ricorda Robert Graves, sarebbero stati versati al drammaturgo per questa storia di disinvolta cosmesi di stato, utile per presentare al meglio Corinto sulla scena del teatro greco durante le feste di Dionisio.

(...) Avvezza a lasciar sbirciare il pubblico nella sua officina letteraria - si pensi alle Premesse di Cassandra (1983) - l'autrice ha chiarito il percorso della sua ricerca, maturata durante un lungo soggiorno negli Stati Uniti. Movendo dall'etimo positivo del nome - Medea, ossia "colei che porta consiglio" un etimo aderente alle raffigurazioni più antiche che vogliono la donna della Colchide dea, e successivamente guaritrice - la Wolf ha indagato i motivi dello scadere di questa figura a emblema di una passione selvaggia e disumana.

"Nel corso dei millenni la figura di Medea è stata ribaltata nel suo opposto da un bisogno patriarcale di denigrare lo specifico femminile. Ma qualcosa non mi tornava : Medea non poteva essere un'infanticida perché una donna proveniente da una cultura matriarcale non avrebbe mai ucciso i suoi figli. In seguito rintracciai - con la collaborazione di altre studiose- le fonti antecedenti a Euripide che confermavano il mio assunto di fondo. Fu un momento straordinario".

Medea non rappresenta l'oscuro inabissamento nell'irrazionale, al contrario essa rivendica l'archetipo della chiarezza, lo scandalo della ragione. Donna di semenza vigile e ostinata, la barbara della Colchide non si lascia irretire dai precetti di Acamante, l'astronomo di corte che la vorrebbe ligia e devota a una liturgia del potere destinata a celare i crimini del palazzo. Medea nega la separazione tra Amt e Person - tra pubblico e privato - e non riconosce altra autorità se non quella del proprio intuito. E' questo suo "secondo sguardo" che la spinge a seguire Merope - regina muta e sepolcrale - fin nelle viscere della casa reale carpendone il segreto murato nel sottosuolo: nel timore di perdere il trono il re Creonte le ha ucciso la figlia primogenita, Ifinoe. Quel regno che si pretende vessillo di gesta gloriose è dunque fondato su di un crimine.
E' proprio questa scoperta a travolgere Medea: Corinto reagisce prima con la diffamazione, poi, devastata dalla peste, identifica in lei, nella donna diversa, irriducibile alla norma dei potenti, il capro espiatorio. Aizzata dalla corte sarà la folla a lapidarne i figli.
E sarà Corinto o meglio la ragion di stato - complice Euripide - a consegnare ai posteri l'immagine di una Medea sfregiata dall'accusa di infanticidio, istituendo con ipocrita cura un rito di riparazione per un delitto da lei non commesso.

Crista Wolf, Meda- ediz. e/o, 1996
 
 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.