Medea, un mito patriarcale
" La Sindrome di Medea" è l'ultima trovata, in ordine di tempo, del sessismo.
Cerchiamo allora di ri-percorrere la storia di Medea attraverso lo sguardo di una scrittrice da poco scomparsa, Christa Wolf, che ricostruisce la vicenda svelando i risvolti patriarcali e gli stereotipi di genere tramandati nei secoli.
Medea
di Christa Wolf
(Postafazione di Anna Chiarloni)
Medea non è una fattucchiera. E tanto meno un'infanticida. Questo, in
sintesi, il senso del romanzo di Christa Wolf. Un'interpretazione del
tutto contro corrente in quanto da Euripide a Heiner Muller il mito di
Medea rappresenta l'esito di un tragico scontro tra il mondo arcaico e
instintuale della Colchide e quello civile e raziocinante dei Greci.
Questo perché la storia ci è nota come ci è stata tramandata dal
drammaturgo ateniese. Un intreccio di amore, gelosia e tradimento:
ingannando il padre e il fratello, Medea aiuta Giasone e gli Argonauti a
riconquistare il vello d'oro e fugge con lui a Corinto. Qui,
abbandonata dal marito che medita di sposare Glauce per ottenere il
trono di Creonte, Medea incendia la città, provoca la morte della rivale
e uccide i figlioletti avuti da Giasone.
Ci sono state, è vero
altre interpretazioni. Rispetto al testo di Euripide, teso ad affermare
la superiorità della ratio greca sul tenebroso mondo dei barbari, il
mito è stato riletto, soprattutto a partire dal romanticismo, in
funzione di un crescente interesse per la sfera del sentimento,
accompagnato - è il caso di Grillparzer (1821) - da un certo scetticismo
nei confronti della techne ellenica, sentita come espressione di una
cinica volontà di dominio. Anche nel film di Pasolini (Medea, 1969) il
furto del vello d'oro diventa simbolol della moderna rapina nei
confronti di un mondo primigenio e inerme : Giasone è la "mens
momentanea", il tecnico dell'oggi circoscritto nell'opaca prassi
razionale. Medea rappresenta invece il tumulto del cuore emergente da un
mondo integro, che ancora conosce la dimensione metafisica.Malgrado le diverse
impostazioni, la lettura del mito corre fin qui nell'alveo prestabilito
da Euripide che sfocia nell'infanticidio. Indubbiamente, al di là del
doppio tradimento - prima di Medea verso le sue genti, poi di Giasone
verso una moglie che gli intralcia la carriera - il dato sconcertante
resta quell'atroce violenza perpetrata dalla barbara della Colchide
sulla propria prole. Ora è proprio questo che Christa Wolf mette in
discussione.
Ripercorrendo a ritroso i variegati sentieri del
mito fino alle fonti precedenti alla versione euripidea, la scrittrice
rintraccia una figura diversa : una donna travagliata sì dall'amore, ma
ancor più dall'incapacità degli abitanti di Corinto di integrare una
cultura come quella della Colchide, per sua natura non incline alla
violenza. Non un'infanticida, dunque,al contrario una donna forte e
generosa, depositaria di ub remoto sapere del corpo e della terra, che
una società intollerante emargina e annienta negli affetti fino a
lapidarle i figli.
La Wolf rielabora frammenti di un mito
provenienti da fonti diverse, attestate soprattutto da Apollonio Rodio.
Infatti, che Euripide avesse manipolato la vicenda per assolvere gli
abitanti di Corinto - colpevoli di aver massacrato i figli di Medea -
emerge anche dalla storiografia antica, onorario compreso : quindici
talenti d'argento, ricorda Robert Graves, sarebbero stati versati al
drammaturgo per questa storia di disinvolta cosmesi di stato, utile per
presentare al meglio Corinto sulla scena del teatro greco durante le
feste di Dionisio.
(...) Avvezza a lasciar sbirciare il
pubblico nella sua officina letteraria - si pensi alle Premesse di
Cassandra (1983) - l'autrice ha chiarito il percorso della sua ricerca,
maturata durante un lungo soggiorno negli Stati Uniti. Movendo
dall'etimo positivo del nome - Medea, ossia "colei che porta consiglio"
un etimo aderente alle raffigurazioni più antiche che vogliono la donna
della Colchide dea, e successivamente guaritrice - la Wolf ha indagato i
motivi dello scadere di questa figura a emblema di una passione
selvaggia e disumana.
"Nel corso dei millenni la figura di
Medea è stata ribaltata nel suo opposto da un bisogno patriarcale di
denigrare lo specifico femminile. Ma qualcosa non mi tornava : Medea non
poteva essere un'infanticida perché una donna proveniente da una
cultura matriarcale non avrebbe mai ucciso i suoi figli. In seguito
rintracciai - con la collaborazione di altre studiose- le fonti
antecedenti a Euripide che confermavano il mio assunto di fondo. Fu un
momento straordinario".
Medea non rappresenta l'oscuro
inabissamento nell'irrazionale, al contrario essa rivendica l'archetipo
della chiarezza, lo scandalo della ragione. Donna di semenza vigile e
ostinata, la barbara della Colchide non si lascia irretire dai precetti
di Acamante, l'astronomo di corte che la vorrebbe ligia e devota a una
liturgia del potere destinata a celare i crimini del palazzo. Medea nega
la separazione tra Amt e Person - tra pubblico e privato - e non
riconosce altra autorità se non quella del proprio intuito. E' questo
suo "secondo sguardo" che la spinge a seguire Merope - regina muta e
sepolcrale - fin nelle viscere della casa reale carpendone il segreto
murato nel sottosuolo: nel timore di perdere il trono il re Creonte le
ha ucciso la figlia primogenita, Ifinoe. Quel regno che si pretende
vessillo di gesta gloriose è dunque fondato su di un crimine.
E' proprio
questa scoperta a travolgere Medea: Corinto reagisce prima con la
diffamazione, poi, devastata dalla peste, identifica in lei, nella donna
diversa, irriducibile alla norma dei potenti, il capro espiatorio.
Aizzata dalla corte sarà la folla a lapidarne i figli.
E sarà Corinto o
meglio la ragion di stato - complice Euripide - a consegnare ai posteri
l'immagine di una Medea sfregiata dall'accusa di infanticidio,
istituendo con ipocrita cura un rito di riparazione per un delitto da
lei non commesso.
Crista Wolf, Meda- ediz. e/o, 1996
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